“Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente.” – Se questo è un uomo –
“La libertà, l’improbabile, impossibile libertà, così lontana da Auschwitz che solo nei sogni osavamo sperarla, era giunta: ma non ci aveva portati alla Terra Promessa. Era intorno a noi, ma sotto forma di una spietata pianura deserta. Ci aspettavano altre prove, altre fatiche, altre fami, altri geli, altre paure.” – La tregua –
C’è una parte di storia di cui non andare fieri.
Da un lato persone, dall’altro bestie.
Persone ridotte a numeri, di cui si è cercato di annientarne l’anima. Invano, fortunatamente.
Le persone durano pure dopo la morte, le bestie non contano nemmeno in vita, nemmeno quanto i numeri.
Lo chiamiamo giorno della memoria, ma quelli se ne ricordano solo il 27 gennaio, mentre gli altri 364 giorni sono giorni dell’oblio in cui continuare a seminare odio, essere quella parte che, se è vero che non partorisce terrore, lo alimenta non sradicandolo, non stigmatizzandolo.
Auschwitz non è chiuso, è intorno a noi e il binario 21 continua a trasportare anime da un presente di cui non andare fieri a un futuro in cui continuare a non andare fieri.
“È Natale da fine ottobre. Le lucette si accendono sempre prima, mentre le persone sono sempre più intermittenti. Io vorrei un dicembre a luci spente e con le persone accese.” (Charles Bukowski)
“Tess, a matita”, il racconto che apre la raccolta “Assenze giustificate, sarà ospite del noto blog “Diario di un lettore squattrinato”, a cui va un grazie sincero.
Sarà pubblicato in 2 puntate, il 29 e 30 novembre, alle ore 20.00.
Leggere un buon romanzo è, per molti versi, come avere una relazione sentimentale lunga e soddisfacente. […] Un racconto è come un bacio veloce, nel buio, ricevuto da uno sconosciuto. […] e nell’intrinseca brevità del gesto, risiede la sua speciale attrazione. (cit. Stephen King)
Giuliano Amato è un arzillo ottantacinquenne (a cui non perdonerò mai la rapina del 6 per mille nel ’92, anche se ero ancora giovane perché mi colpisse direttamente) che non ci pensa proprio ad andare in pensione.
Ex giudice della Corte Costituzionale, ex parlamentare, ex ministro, ex presidente del Consiglio, della Consulta e dell’AGCM.
Bene, da qualche giorno è stato eletto presidente della Commissione Algoritmi, appena voluta dal Governo e si occuperà di Intelligenza Artificiale. Tra gli obiettivi della Commissione, quello di studiare le possibili applicazioni dell’IA nel mercato editoriale.
Il suo omologo in UK è Ian Hogarth, nominato in luglio, 38 anni, laureato a Cambridge in Computer Science con tesi cum laude in Machine Learning, 50 investimenti in startup, a capo di un fondo di investimento da 250mln €. Hogarth è stato inserito nel 2023 nella lista TIME The 100 Most Influential People in AI.
Mi piacerebbe che certa gente provasse un po’ di vergogna per le dichiarazioni di cui ci fa partecipi, ma è vana la speranza.
“Il boss è morto, l’Italia continua a essere un paese a vocazione mafiosa.” (cit. #RobertoSaviano)
Che parlasse per lui…chi è costui per definire, di fatto, noi e il nostro paese mafiosi? Se lui ci si sente (mafioso), perché da anni ha deciso di investirci e camparci di mafia, che non si permettesse, almeno, di accomunarmi a lui, giusto per alleggerirsi la coscienza!
Evidentemente, non gli basta più speculare sulla Campania e Falcone…deve alzare il tiro e infangare l’Italia intera.
Due giorni fa, concludevo il post su Siani, con una frase: “Le mafie fanno schifo, ma peggiori dei mafiosi sono le persone “finte perbene”, “eticamente irreprensibili”, “socialmente impegnate” che con la mafia, a vario titolo, ci campano (pennivendoli, politici, manovalanza, ecc, ecc).” Lo ribadisco! #messinadenaro
Il 23 settembre di 38 anni fa veniva ucciso Giancarlo Siani. Il murales a lui dedicato si sta rovinando, speriamo non accada con la sua memoria. Le sue frasi sembrano più che mai attuali.
A 26 anni e quasi 40 anni prima, ha descritto perfettamente persone e fatti dei giorni nostri, pur non avendone fatto la conoscenza diretta dei pennivendoli in giro per soldi (chissà a chi sto pensando, soprattutto) e alla maniera “criminale” di comunicare per alimentare odio e razzismo, creare “diversi”.
Uno così non può che fare paura alla criminalità, altro che i pagliacci de noantri.
“La criminalità, la corruzione non si combattono soltanto con i carabinieri. Le persone per scegliere devono sapere, devono conoscere i fatti. È allora quello che un giornalista ‘giornalista’ dovrebbe fare è questo:informare”. Riportata nel film “Fortapàsc”
“Tante volte avere il tesserino, che sia da pubblicista o da professionista, non fa di una persona un giornalista, nel senso che sovente ci si imbatte in pennivendoli sgrammaticati amanti del denaro e della notorietà facile. Essere Giornalista è qualcosa di altro. – scriveva Siani – E’ sentire l’ingiustizia del mondo sulla propria pelle, è schierarsi dalla parte della verità, è denuncia, è ricerca, è curiosità, è approfondimento, è sentirsi troppe volte ahimè spalle al muro, emarginato. Essere Giornalista significa farsi amica la paura e continuare sulla propria strada perché raccontando si diventa scomodi a qualcuno. Le parole, mi è sempre stato detto, feriscono più di mille lame, pungolano le coscienze, sono inviti alla riflessione e alla lotta, teoria che diviene prassi quotidiana di esercizio della libertà. – continuava – Ma le parole possono, anche, se usate in maniera ‘criminale’, passare dei messaggi sbagliati, costruire luoghi comuni difficili da abbattere, discriminare, incitare all’odio, creare dei ‘diversi’ da sbattere in prima pagina come il male assoluto, rendendo le nostre società sempre meno inclusive, transennate dal filo spinato dell’ignoranza e del razzismo”. GIANCARLO SIANI (1959-1985)
Ogni recensione offre sempre uno spunto di riflessione. È un confronto con gli altri, che diventa con sé stessi. Mette in discussione e accomuna. È un gesto generoso del lettore e momento di crescita per l’autore.
Più o meno ogni anno scrivono un articolo sull’editoria per dire quanto poco si venda, poco si legga, ma tanto si scriva, sempre di più.
Servono veramente questi articoli? Non mi pare di aver mai letto un articolo su quanti barattoli di pomodori restino invenduti o perché 60 milioni di italiani, per hobby, non pratichino curling.
Quello dei libri, invece, è un mondo che deve essere sempre tirato a lucido, messo alla prova, sempre sotto pressione: lettori forti, lettori deboli, best seller, classifiche. Quel sano “fare il cazzo che ci pare”, dov’è finito?
Fortunatamente, “Con la porta aperta” prima e “Assenze giustificate” ora, regalano belle soddisfazioni e, grazie a molti, sono pure usciti dalla parte bassa delle classifiche…perché le classifiche non contano, ma se ci sono, meglio non stare all’ultimo posto!
“Una lacrima in panchina” è stato uno dei primi racconti per questa raccolta. Nasce dallo sdegno per l’abuso, visto da un’altra prospettiva. Lei è Sara, per uno sliding door si trova a percorre strade non progettate e con passi non misurati. Ruba il profumo da un tiglio, mangia un croissant al bar e rinasce. Lontano dalla compassione, affronta la miseria di un uomo. La vince.
Nato in una telefonata con un amico. Lui parla per sfogarsi. Il racconto nasce per rivalsa. Un tributo per le donne che lottano e ce la fanno, per quelle che lottano e non ce la fanno, per quelle che non riescono nemmeno a lottare. Tutte sono forti. Ognuna a modo suo.
Il seguito è finzione della mente, nella realtà delle parole.
“Tess, a matita” è il primo dei 15 racconti di Assenze giustificate. E, dai primi riscontri, sembra sia quello preferito.
Tess è nata in sordina, come spalla del protagonista. Invece, ne ha preso il posto, ma si è imposta con naturalezza, nella trama prima, entrando in empatia con i lettori poi.
Tess aveva 14 anni, ma è cresciuta con un’adolescenza diversa, diventando una donna diversa, unica.
È la classica storia dalla quale ci si aspetta il lieto fine, ma va’ a capire quale sarebbe il lieto fine adeguato.
L’assenza è costantemente presente nella vita, non se ne va mai veramente via. Per tenerci compagnia. www.palmierimichele.it
“La verità è un viaggio in compagnia di sconosciuti.”
“Le mie parole sono corse contromano e contro tempo. Senza speranza di trovarmi, mi cerco.”
Marilena Lucente ha la capacità, rara e preziosa, di mettere potenza nelle singole parole, forza nelle singole frasi. Le utilizza come arnesi di lavoro, ma le confeziona con cura, garbo, gentilezza e ce le regala per farci stare meglio. Potresti anche non finire di leggere il libro, che ti rimane comunque qualcosa dentro, ma ci vai alla fine per puro spirito egoistico. Io mi immagino l’autrice quando scrive, e pensa a quali parole usare, con quale inchiostro “partorirle”, su quale carta imprimerle, per farti arrivare limpido il suono del messaggio di cui sono portatrici.
Questo romanzo effettivamente è un viaggio. Di verità nella verità. Nelle verità. Di ricerca interiore, fino all’io più nascosto. Può capitare a noi tutti di venire sommersi nella realtà, rincorrendo uno spirito di verità, diciamo bugie o diverse verità, di diversa natura, peso, spessore. Le diciamo a noi, innanzitutto, per permetterci di vivere con tranquillità, serenità, ma ci illudiamo soltanto. E non riusciamo a uscirne, spinti in una nuova realtà, non necessariamente meno vera.
E diventiamo, ogni volta, un Maurizio che, come un novello Virgilio, ci conduce nel nostro inferno, nel tentativo di salvarci.
Marilena Lucente ha la capacità, rara e preziosa, di non farci annegare laggiù, dove noi stessi ci spingiamo.
Come ho già detto altre volte, assistere a una presentazione di un suo libro è illuminante e impagabile. E il 28 maggio ne abbiamo la possibilità, nell’ultimo giorno del Festival dedicato a Capua, alla scrittura, all’arte, alla cultura.
“Per non restare laggiù” a Capua il luogo della lingua festival, Palazzo Lanza, ore 11.30.
In questi giorni vi ho spammato #Assenze_giustificate, come un venditore di diete dimagranti qualche giorno prima della prova costume.
Finalmente, siamo arrivati alla presentazione, in una serata intensa e ricca: di partecipazione, di emozioni, di presenze. E anche di assenze. Ho incontrato persone di una vita e ho stretto mani per la prima volta. È stato emozionante ed entusiasmante. Tutti mi hanno gratificato con il calore e la passione. Con molti ho scambiato qualche parola anche in privato, ma non quante avrei voluto.
Ho dedicato e autografato libri, cercando un pensiero che descrivesse il singolo lettore, ho firmato braccia per storie cool di Instagram. Tutto in un clima sereno, piacevole, di benessere.
Chi non ha potuto esserci, mi ha mostrato vicinanza con una telefonata, un messaggio, un augurio. Ancora mi riascolto voci amiche bloccate a un convegno di avvocati e rileggo auguri e sproni che sento sinceri e pieni.
Ringrazio veramente tutti, spero di essere riuscito, con il mio intervento, a trasmettere almeno un centesimo di quanto ricevuto.
Questo della scrittura è per me un gioco. Un gioco bello della vita. E mi diverto. Mi fate divertire! Grazie. Sempre.
Un ringraziamento speciale a chi mi ha aiutato a realizzarlo: Giovanna, Marilena, Sante, Franco, Sonia, Roberto, Giuseppe.
Michele Palmieri sarà ospite del Circolo dei lettori di Capua, presso la libreria Cose d’Interni libri.
L’appuntamento è per venerdì 5 maggio 2023 alle 18,30, in corso Gran Priorato di Malta, 88 a Capua (Ce), all’interno della rubrica Terra di Lavoro scrive, per parlare di “Assenze giustificate” ma, volendo, di tanto altro. Non mancate.
“Tess, a matita” è il primo dei 15 racconti di Assenze giustificate.
Si parla di vigne, di un dobermann, di amori adolescenziali e non. E di Tess, soprattutto. È la classica storia dalla quale ci si aspetta il lieto fine.
L’assenza è costantemente presente nella nostra vita, non se ne va mai veramente via. Per tenerci compagnia.
Un altro pezzo della copertina di Assenze giustificate.
Assenze giustificate è una raccolta di 15 racconti, il cui tema comune è l’assenza. L’assenza è costantemente presente nella nostra vita, non se ne va mai veramente via. Per tenerci compagnia.
Nel 2022 l’editoria (esclusa quella scolastica) ha fatturato 1,671 miliardi di € e venduto 112,6 milioni di copie. Bicchiere mezzo pieno, perché perde vs. il 2021 il 2,3%, però su un mercato più ampio. Infatti, fa +13% vs. il 2019. Gli ebook hanno fatturato 79 milioni (-8%, +10%), gli audiolibri 25 milioni (+4%, +178%).
L’editoria italiana (compresi testi scolastici) è la quarta in Europa e in Italia, nell’industria culturale è prima, davanti a pay tv e videogiochi.
Sono state pubblicate 76.575 novità in cartaceo (-10% sul 2021 e +3,8% sul 2019) e 35.200 ebook (-28% circa sia sul 2021 che il 2019).
Sostanzialmente, il cartaceo tiene e l’ebook perde in un contesto già residuale, senza supporto dagli audiolibri.
Le librerie fisiche (quelle in catena fanno molto meglio delle indipendenti) crescono sul 2021, ma arretrano molto vs. il 2019. Inversamente, l’online, perde mezzo punto vs. il 2021, cresce molto sul ’19. In GDO, perde su entrambi gli anni, in linea con la crisi delle grandi superfici (iper). 53 libri su 100 sono acquistati in libreria, 42 online e meno di 5 in GDO (erano 64, oltre 29 e oltre 6 nel 2019).
Buona performance per il fumetto (+8,6%) e la narrativa straniera (+7%) e italiana (+4,9%), male bambini/ragazzi (-3,7%), molto male la saggistica (-10%).
Mercato molto frammentato, dove i 100 titoli più venduti valgono solo l’8% del mercato e il 7% delle copie. I titoli in catalogo fanno i 2/3 del mercato e solo 1/3 è fatto dalle novità.
Per la narrativa il Natale si conferma il momento di maggior consumo, seguito dall’estate.
I prezzi mediamente non sono aumentati, a danno dei margini, vista l’impennata di materie prime ed energia. 2023 incerto in cui peseranno l’inflazione, pirateria, nuova legge al vaglio, ma con una grande novità. Stay tuned!
Mi presento, mi chiamo Sofia Sacchitelli, ho 23 anni, sono di Genova e sono una studentessa di medicina del quinto anno.
Il 10 novembre 2021 ho scoperto che l’atrio destro del mio cuore ospitava un’enorme massa di cellule tumorali maligne chiamata angiosarcoma cardiaco, tumore molto aggressivo e attualmente considerato a prognosi infausta. Patologia talmente rara e assurda, con quota di circa 2-3 casi per milione di abitanti, tanto da ritenermi quasi “fortunata” a esserne stata colpita.
Mi ci sono voluti diversi mesi per riuscire a pronunciare quell’orrenda parola senza la voce tremolante e senza essere percossa da un brivido lungo la schiena.
Parto dal presupposto che la mia filosofia di vita fin da piccola, ogni volta che mi capitava qualcosa che mi faceva sentire sfortunata, oppure che ritenessi ingiusta, è sempre stata “le tragedie nella vita sono altre”
In seguito alla diagnosi e dopo essere stata dichiarata l’inoperabilità del mio tumore, vista la sede e di conseguenza l’impossibilità di asportare l’organo, mi è risultato più difficile applicare la mia filosofia.
Dopo un iniziale momento di rabbia e sconforto ho cercato, tra un ciclo di chemioterapia e l’altro, di continuare a condurre una vita il più normale possibile, per il bene e la salute mentale mia e della mia famiglia.
Già la vita è breve e se la mia lo è ancora di più, meglio godersela e fare ciò che ti rende felice.
Sempre circondata dal supporto dei miei genitori, di mia sorella Ilaria, del mio ragazzo Nicolò e dei miei amici più cari, ho vissuto il mio percorso di cura nel modo più sereno possibile.
La malattia mi ha permesso di provare sensazioni mai conosciute prima, non solo negative; di scoprire la personalità e la profonda sensibilità di alcuni, a differenza di altri che invece si sono tirati indietro, non sapendo come affrontare la situazione, ma che comunque non condanno.
Oggi non sono qui a lamentarmi di quanto il cancro faccia soffrire o quanto sia stata sfortunata ad esserne colpita perché purtroppo ogni giorno migliaia di bambini, ragazzi e giovani adulti come me combattono duramente le loro battaglie.
Ho sempre amato la vita, adoravo riempirmi le giornate di impegni e circondarmi di persone positive. Non ho mai avuto rimpianti e grazie al sostegno e ai sacrifici dei miei genitori sono sempre riuscita a fare tutto ciò che mi rendesse felice e mi facesse stare bene.
Il destino purtroppo mi ha impedito di realizzare tutti i progetti che avevo in mente: diventare medico, sposarmi, avere dei bambini, passare dei momenti con le persone che amo, andare a vedere la Samp con mio papà e mia sorella, viaggiare, accudire i miei genitori da anziani e invecchiare.
Il pensiero più angoscioso e tormentoso per me rimane il fatto che due genitori rimarranno senza la loro creatura, una ragazza senza la sua adorata sorella minore e un ragazzo senza l’amore della sua vita; a questo non riuscirò mai a trovare una giustificazione che mi dia pace.
Il mio unico vero desiderio sarebbe quello di fare anche solo un piccolissimo passo avanti nella ricerca e sulle conoscenze di una malattia estremamente rara come l’angiosarcoma cardiaco.
Avendo colpito me personalmente mi riesce veramente difficile rimanere indifferente; soprattutto per tutte le persone e le famiglie che si sono sentite spaventate, abbandonate e sconfortate al momento della diagnosi, come è capitato a noi. Tutto questo ovviamente è alimentato dal fatto che sono una studentessa di medicina e dalla mia profonda fiducia nella ricerca. Magari non darà risultati grandiosi, ma vorrei comunque provarci.
Il mio sogno sarebbe che nessuno mai più ricevesse una sentenza di morte come è capitato a me e a tutte le persone che hanno lottato contro la stessa malattia.
Sono perfettamente consapevole del fatto che gli studi di ricerca si concentrino di più sui tumori con incidenza maggiore sulla popolazione, come è logico che sia.
Quello che ho deciso di realizzare è una raccolta fondi in cui verserò tutti i miei risparmi guadagnati da studentessa lavoratrice. Chiunque vorrà potrà contribuire, anche in minima parte, a raggiungere questo obiettivo.
La raccolta sarà finalizzata a studi di ricerca sugli angiosarcomi realizzati da parte dell’Italian Sarcoma Group per permettere una cura e una qualità di vita migliori nei pazienti affetti da questa patologia.
Concludo citando una frase di John Lennon:
“LA VITA È CIÒ CHE TI SUCCEDE MENTRE SEI OCCUPATO A FARE ALTRI PIANI”
Grazie a tutti per l’attenzione e per l’affettuoso sostegno che mi avete sempre dato.
La censura non ha mai portato niente di buono, soprattutto quando si trincera dietro un falso politically correct, che è solo perbenismo di facciata.
La censura dei libri di Roald Dahl da parte di Puffin e degli eredi è solo un teatrino patetico, ridicolo, un calcolo mercificato della sua arte. Ignobile. Si sarebbero permessi di fare altrettanto, se fosse stato in vita? Andremo a toccare gli scritti di tutti gli scrittori?
Mo’ ci dobbiamo aspettare pure i roghi dei libri in piazza, giusto per fare bella figura (o ‘na bella figura demme’)?
O perché non andare a coprire “le vergone” di statue e quadri, come una boutade deficiente di qualche tempo fa?
Non voglio certo lamentarmi visto che è solo uno, ma ecco, è lì a ricordarmi che sono fatto della stessa materia dell’uomo comune. Uno di voi, insomma.
Però vuoi mettere la soddisfazione delle azioni che ne conseguono? Se qualcuno avesse da ridire, potrei incolpare lui, il mio carattere, e corro via leggero, senza scrupoli.
È tanto più eclatante quando viene fuori, perché i più mi riconoscono modi affabili e gentili. Il guaio è che, questi più, in maggioranza siano degli idioti e restano straniti quando li mando a fanculo cantandogliene quattro (quarantaquattro, in realtà), mostrando il mio lato bestiale, insensibile e senza cuore. Forse pure screanzato.
Non li reggo, non so che farci. Sulle prime mi riprometto di tacere e non considerarli, ma alla fine reagisco, a volte maldestramente e malamente, però con giustizia e onestà intellettuale.
L’istinto primitivo di discendente del cavernicolo mi vorrebbe portare a dargli un pugno su quell’espressione stolida, non avendo più la clava a disposizione. Riesco a trattenerlo nella mano, e poi ne sono felice. Salvo la dignità, almeno.
Ecco perché nell’ultimo cda ho fatto presente che chi non sa far applicare i contratti, dovrebbe dedicarsi ad altro. Detto così suona bene. Nella realtà è venuto fuori molto meno carino, senza la possibilità di farmi guadagnare punti: ho urlato, guardando dritto sulla faccia del malcapitato, declinando a una a una le incapacità e suggerendo, oltre alla corretta esecuzione, pure quale personaggio scemo dei fumetti sarebbe, invece, stato in grado di farlo senza problemi.
Almeno al lavoro, potrei liberarmi degli idioti esercitando il mio potere e il mio ruolo, lo so, ma vorrei che ognuno avesse il decoro dell’autoanalisi oggettiva, ammettere le proprie incapacità e togliersi dai piedi. Lavoro per un mondo migliore, quindi. Cerco di far crescere i miei interlocutori e collaboratori, ma molti sovrastimano sé stessi e, così, anziché ammettere di essere inetti, dicono che lo stronzo sia io.
È Natale da fine ottobre. Le lucette si accendono sempre prima, mentre le persone sono sempre più intermittenti. Io vorrei un dicembre a luci spente e le persone accese. (cit. Charles Bukowski)
Io e G. non siamo diventati amici. Per certi versi siamo stati di più. Quando l’ho conosciuto, io poco più di un ragazzo, lui poco sotto i sessanta, ha cominciato a farmi un sacco di domande, un vero e proprio terzo grado: da dove venissi, chi fossero i miei parenti, perché avessi quel nome e come si incastrasse comunque con le mie origini e cittadinanza. Poi, mi ha insegnato un mondo e tutte le cose che potesse contenere. I modi potevano sembrare bruschi, ma era solo perché ne aveva passate tante, da quando a sei anni fu costretto a cominciare a lavorare, fino all’ultima fregatura della vita che gli aveva tolto quasi in contemporanea moglie e fratello. E prima c’era stata la penultima fregatura, da un suo amico, perché degli amici ci si deve fidare, mi disse e quindi lui si era fidato, proponendogli un affare da fare insieme. E me ne aveva parlato commosso, senza che sapessi cosa ribattere. L’affare, anni dopo, si era rivelato proprio grosso, di quelli che ti fanno svoltare e lui aveva visto giusto. E pure l’amico, però, che approfittando della soffiata, l’aveva poi fatto senza soci, lasciandolo solo con l’amarezza non dei soldi non guadagnati, ma della delusione. E nonostante questo, ancora si fidava delle persone, dandomi l’onore della sua fiducia. E io di lui, ovvio, ma a me veniva facile.
L’ultima volta che l’ho sentito eravamo al telefono: stava andando in clinica per un’operazione che non sospettavo nemmeno e non sapeva se ce l’avrebbe fatta. Voleva salutarmi. Gli augurai il meglio e gli chiesi di farmi sapere appena sarebbe uscito che sarei andato a fargli visita. Dopo qualche giorno, ricevetti un messaggio. Quando vidi il nome sullo smartphone fui contentissimo, con gli occhi che mi brillavano di gioia. Era invece un messaggio della famiglia che mi comunicava che G. non ce l’aveva fatta, ma ci teneva che sapessi. Divenne buio nella stanza con gli occhi che continuavo a brillare, ma le lacrime erano molto amare.
Elon Musk, acquista Twitter, entra con un lavandino in mano e 5 minuti dopo licenzia 5 top manager (tra cui il CEO, scortato fuori dalla sicurezza). Nella foto è nella hall con i dipendenti. Scopriranno che il 25% sarà licenziato entro novembre (ha chiesto ai manager di stilare un elenco dei dipendenti da tagliare in tempi rapidi, in particolare vendite e ingegneri).
A chi gli ha chiesto per quanto tempo intendesse restare amministratore delegato della società, ha risposto
«Il mio titolo è Chief Twit. Non ho idea di chi sia il Ceo»
C’è chi gli dà del ciarlatano, dell’imbonitore, chi del genio, del visionario. Si può non concordare con il suo approccio al business, ma non si può prescindere dalla storia personale per analizzarne il comportamento.
Quando esce da Paypal (di cui è stato cofondatore), incassa circa 180 milioni di dollari. Decide di puntare tutto, non metà, non 179 milioni, ma proprio tutto sulle sue intuizioni (Space X, Tesla, Solar Roof, The Boring Company, Neuralink, OpenAI, Hyperloop). O vince o perde, senza mezze misure.
È per questo che gli investitori gli credono. Spendono per acquistare “aria mista a chiacchiere”, senza vedere un $ di utili, 0 di dividendi. E i consumatori acquistano auto che ancora non esistono.
Musk vale molto più del suo prodotto.
Dall’esterno sembra un modo di fare affari pericoloso, spietato, subdolo (vedi Bitcoin e la trattativa stessa di Twitter). Forse è uno che vive altrove nel futuro e per questo calpesta chi gli sta intorno nel presente: perché non se ne accorge, lì lui c’è stato vent’anni prima e non c’era nessuno.
Musk rappresenta un modo di essere capo completamente diverso e fuori dai dettami e dagli schemi attuali, ma ha indiscutibilmente la stoffa del leader.
Vedo la gente e la faccio scorrere, cercando di dimenticare, sperando di dimenticare. Poi cerco di guardare le persone, per farle rimanere. Difficile trovarle nella gente, di solito le persone stanno per cazzi loro, ma non per carattere schivo, perché si bastano. Devi uscire dalla gente per trovare le persone, un po’ come andare per funghi, devi essere esperto, paziente, determinato, sicuro, sapere dove andare, quando andare, quando e quanto fermarti, quando scappare. Molti cercano di essere persone, fanno come le persone, sembrano persone, ma a guardare bene si rivelano gente, però isolate, perché manco la gente le ha volute. Ho incontrato un bel po’ di gente, ma sono sempre contento quando incontro una persona,
Sto in silenzio, a volte, ma il silenzio non è mancanza di argomenti: è ascolto, è interesse. O è indifferenza. Comunque, una dimensione cercata, un’espressione voluta.
Agli stolti può sembrare mancanza di argomenti, ma non è questo il caso.
La prima volta l’ho ascoltato – in silenzio – con interesse, perché me ne avevano parlato benissimo e tendo a fidarmi delle persone che stimo. Avevamo, finalmente, il nuovo direttore marketing, arrivato con squilli di trombe, rulli di tamburi, fanfare, tappeti rossi. Mancavano i nani e le ballerine, ma sottotraccia il pagliaccio c’era, ero io a non saperlo ancora. Aveva il nome simile a un vescovo, l’aspetto del cardinale, il carattere di quei baroni all’università, che dopo un po’ sanno solo di stantio e sopruso. Vuoto nel profondo, fumo negli occhi, bile nel fegato.
Il primo giorno che ci incontrammo mi chiese di andare a cena insieme, accettai con entusiasmo, pur se mi costò annullare dei programmi precedenti. Andammo al giapponese e mi fregò con tutte le scarpe. Non per il menu, ovvio. Avemmo un proficuo dialogo sullo stato dell’arte, sui progetti in corso, sulle strategie, soprattutto, che sono quelle che mi appassionano di più. Ci lasciammo andare anche a un discreto gossip, ma giusto per qualche risata senza cattiveria. Ero convinto avessimo trovato la persona giusta, più concreto e produttivo del predecessore, bravissimo e serio, ma poco incisivo.
Alla seconda riunione, cominciarono a venire fuori l’anima e la natura del personaggio: era tutto infarcito di autoreferenzialità, anche laddove non necessaria, tutto un susseguirsi, di “questo l’ho inventato io”, “questo l’ho fatto io”, “questo me lo hanno copiato”, “c’era uno sfacelo, figa, fortuna che sono arrivato”.
Gli squilli sono presto diventati stridii e non ha prodotto nulla di buono o di diverso da quanto venisse fatto già: aria fritta, ma in un pack più costoso. Crede di essersi rintanato nel suo angolino di paradiso, ma io l’ho abbandonato. È riuscito a vendere ottimamente il suo ego, ma vale sempre e comunque poco. Prezzo e valore sono due concetti diversi.
Finalmente, un film italiano che valga la pena di essere visto, dopo tanto, troppo tempo.
La regia è di Alessandro Gassmann, dopo averne già presentata una versione a teatro, un successo. È tratto da un testo di Maurizio De Giovanni.
Il teatro si vede e si sente tutto. E menomale. Belle la fotografia e l’interpretazione, profondi i significati della casa, degli ologrammi, dei rapporti familiari. Fondamentali i silenzi e i segnali e le poche parole che li rivelano.
Valerio: “I libri vanno ordinati per omogeneità emotiva”, Bettina: “Io invece li ordinerei per colore: nero, grigio, azzurro, verde, marrone, rosso, rosa. In ordine degradante, così ti addormenti prima di averli aperti”. www.palmierimichele.it
Non ho mai avuto un bel rapporto con la scuola. Poi, in qualche modo, abbiamo fatto la pace, ma devo ringraziare zio Milvio se non sono finito a fare truffe o spacciare per campare. E tutto quello che so di importante, è merito suo: la facoltà di economia ti insegna tante cose, ma per impararle e farle tue veramente devi avere un buon maestro. A giustificazione per la mia condotta potrei giocare facilmente la carta della morte di mamma, ma non penso sia quello il vero motivo. Ero uno stronzo già da prima e se non l’avesse uccisa quel Daily sgangherato, probabilmente l’avrebbe fatto il dolore che le avrei causato con una delle mille mie cazzate, cresciute di portata al passo con l’età.
Prima di uscire l’ultima volta per andare allo studio notarile dove lavorava, si era affacciata in camera e mi aveva sussurrato amorevolmente, sembrando di non farla sembrare un’implorazione “Io vado, fai il bravo” a cui seguì un “sì” d’ordinanza. Sapevamo entrambi che ci sarebbe voluto ben altro, però cercavamo di farlo bastare.
Non ce l’avevo con lei, naturalmente, e in fondo nemmeno con mio padre – con lui ho cominciato ad avercela dopo – ma era come se avessi avuto bisogno di trovare sempre nuovi limiti, spingermi sempre oltre, trovare il mio punto di rottura, senza sapere che qualora l’avessi trovato, sarebbe stato impossibile tornare indietro.
Così, pensando fosse un giorno come gli altri, non andai a scuola e con due complici, andammo a rubare due galline e un’anatra che rivendemmo nel paese vicino. Comprammo le nostre prime birre più qualcosa da mangiare e delle figurine di calciatori. Viaggiavo sulle rotte di una bellissima giornata, per questa nuova iniziazione, per questa nuova sfida, per non essere andato a scuola, per l’adrenalina e il sapore di birra che giravano in corpo. È durato qualche ora, fin quando non ho imparato a mie spese di dover sempre aspettare i titoli di coda prima di uscire dalla sala. O dalla vita. E quelle figurine mi ricordano ancora oggi un giorno da dimenticare, come le preci.
La prima sigaretta non l’ho fumata, quasi l’ho ingoiata. Tiravo con forza, sentivo le guance rientrare nella faccia, quasi le sentivo sfiorarsi dentro la bocca. Per la voglia di bruciare le tappe, per sentirmi adulto, per la paura fottuta che mi beccassero, per correre ovunque non ci fosse infanzia e preadolescenza attorno. Sono riuscito a non tossire, ma gli occhi mi hanno lacrimato, un pizzicore sulla lingua, un sapore aspro e caldo. L’ho fumata fino in fondo e, dopo aver fatto l’ultimo tiro, con il filtro ormai bruciato e bollente, non sapevo che farne di quei resti consumati. L’ho fumata troppo, per far durare di più quell’esperienza, ma anche perché non sapevo il limite che, evidentemente, avevo superato. In ogni senso.
Ho esplorato nella memoria scene di film: nuvole di fumo, facce truci, arie soddisfatte, poi, tenendola tra due dita, con il medio l’ho lanciata e subito dopo rincorsa per andare a spegnerla e cancellare ogni prova della bravata. Di brace quasi non ce n’era più quando l’ho schiacciata, ma ho provato comunque un piacere elementare, un bisogno primordiale, quasi. Ma un po’ la stavo anche nascondendo sotto la scarpa.
Mi sono sentito grande, come non mai, nemmeno al primo bacio, un po’ dopo, mi sono sentito tanto enorme. In fondo sapevo quanto fosse solo fumo, ma non lo avrei ammesso nemmeno davanti al Padreterno. Avrò avuto dieci anni e mi hanno beccato, ovviamente. Oggi quando fumo, lo faccio sempre al buio, come a nascondermi. A me stesso e agli altri. Guardo la brace viva, ascolto il rumore della carta e del tabacco che si consumano o della vita che si accorcia, penso ogni volta con tenerezza a quel moccioso nascosto tra gli alberi, penso che dovrei smettere e dovrei cominciare a crescere: da bambini lottiamo per fare le cose da grandi, da adulti se non accettiamo di esserlo e imitiamo i piccoli, restiamo dei mocciosi.
Mai ci saremmo aspettati di sbarcare in Brasile!!!
Grazie a Kindle Unlimited (il sistema di lettura in abbonamento di Amazon) “Con la porta aperta” è stato letto fin lì Viaggio lungo, durato 2 mesi, ma alla fine conta il risultato. E ora, come a Risiko, tocca conquistare la Kamchatka…ma Malta va bene uguale www.palmierimichele.it #WhitakerAcademy#conlaportaaperta#capua #michelepalmieri
Comincio a conoscere e riconoscere la scrittura della Lucente, ma ogni volta ne resto stupito. Non è importante di cosa scriva: in ogni rigo trovi la poesia della parola, al di là della cronaca. Prima della sua scrittura, però, ho conosciuto lei. E, giorno per giorno, colgo quanto prezioso e fortunato sia stato quell’incontro: Marilena “viene per restare” (cit.) come autrice, come amica.
Non amo le rivoluzioni e non amo, di conseguenza, i rivoluzionari che sia il Che o Garibaldi, poco cambia, credo poco a chi va di cappa e di spada: le rivoluzioni si fanno in ben altro modo, soprattutto oggi. E i veri rivoluzionari sono quanti vivono una normalità ostica, dura, tragica e non rinunciano. Il resto è solo ego.
Solo Marilena Lucente poteva riuscire a farmi leggere di lui, attraverso lei, Anita, una ragazzina, in fondo, morta quasi prima di diventare donna, avendo comunque il tempo di incidere la società e così scopro chi è veramente l’eroe, chi veramente la rivoluzionaria, quando invece credevo fosse un semplice riflesso del famoso coniuge.
Anita è tante cose, ma in queste pagine (e, azzardo, che difficilmente si leggerebbe altrove) emerge la determinazione, la tenacia, l’audacia tutte declinate al femminile. È una donna di scelte, più che azione. In questa biografia, non è l’autrice a scriverne, ma è Anita stessa a raccontarsi. E oltre che leggerlo, assistere anche alla presentazione dell’opera, è illuminante.
Tra i nostri collaboratori ce n’è stato uno, in particolare, che tutti abbiamo amato. Proprio tutti, non solo noi colleghi, ma anche i nostri partner, i nostri clienti senza differenza di ruolo o grado. Per i modi, la professionalità, l’empatia. La battuta pronta, la mano tesa, la spalla disponibile. Sempre. Non rientravano nelle sue risposte i “no” e i “non si può fare”. Mai.
Un giorno però, il suo corpo è stato preso in ostaggio: un cancro ai polmoni. Ha tirato fuori ancora più grinta, insieme a una rabbia condivisibile. I primi tempi non ci sono stati problemi: ha compensato le piccole carenze con più abnegazione, già al limite, e tutti gli hanno dato la massima collaborazione, facendo finta che tutto fosse come sempre.
Poi, però le cose sono peggiorate e le carenze sono diventate cazzate: dopo la chemio si è messo in auto e per poco non si è ucciso. Dopo essere passati in ospedale, zio Milvio e io abbiamo deciso di metterlo al riparo da probabili ripercussioni degli altri soci che non lo conoscevano o che se ne fottono delle persone, per i quali sono solo gente. Non lo abbiamo demansionato, ma affidato compiti meno in vista, così che le sbavature non potessero emergere.
Non ha apprezzato. Per niente. Si è imbestialito e ci ha incolpato di averlo messo da parte solo per salvaguardare il business, chiedendo quindi il supporto di chi non avesse, però, il coraggio di dirgli la verità. Ci ha insultati ma non ci siamo offesi né io né zio Milvio, consapevoli di averlo fatto per lui e di tutelare i profitti non ci è passato per la mente. Mai.
Lui non ce l’ha fatta e l’unico rammarico è che non c’è stato il tempo di chiarirci. Ho sempre creduto e sperato, però, che nel suo intimo – nonostante le parole di altro tenore – non abbia mai messo in dubbio l’affetto e la stima che ci legavano. Fare il bene di una persona non vuol dire fare ciò che desidera, ma ciò che è giusto per lei.
Appuntamento a mercoledì 25 maggio 2022, h. 18,00. Per il programma completo del Festival, vai al link https://www.capuailluogodellalingua.it/capua-il-luogo-della-lingua-festival/
Ringrazio Capua il Luogo della Lingua festival e il suo direttore Giuseppe Bellone per l’opportunità di essere presente alla kermesse capuana che dal 2005 promuove la cultura in tutte le sue declinazioni e che si terrà dal 21 al 29 maggio.
Non so se me lo merito, ma sono veramente contento.
Sarà la mia seconda partecipazione, questa. La prima nel 2018, con La lingua della luna, il mio primo racconto, inserito nell’antologia a corredo di “Eduardo Di Capua, l’Amleto della canzone”. E qui il grazie va alla guida magistrale di Marilena Lucente e alla compagnia di Alina, Annalisa, Loredana, Carlo, Domenico, Ottavio.
Avevo voglia di parlare della mia città, #Capua, ricordarne una caratteristica almeno, magari omaggiando un frutto simbolo della sua terra, il carciofo. E riflettevo sulle trasformazioni di cui avrebbe bisogno e che non arrivano. Proprio come gli uomini che dovrebbero cambiare, evolvere, crescere. Poi scopri per caso che nelle altre città già lo omaggiano il carciofo. È che in fondo sai, ma non vuoi ammetterlo che la tua città diventa ogni giorno un po’ più immobile, più desueta, più vecchia. Il seguito è finzione della mente, nella realtà delle parole.
Andavo da G.d.A. una o due volte l’anno, circa. Facevamo affari insieme, ma non ne parlavamo mai. Quelli poi li lasciavamo a Graziano e Giuseppe, i nostri rispettivi collaboratori. Ne conservo una stima enorme, anche se non ci vediamo quasi più. A stare di fronte a certe persone, capisci cosa voglia dire rispetto, confronto, fiducia, amicizia. Può sembrare strano in un contesto lavorativo. Ma per me è fondamentale. Faceva fatica ad adattarsi ai cambiamenti, specie quelli repentini e improvvisi, ma necessari. Accoglieva il futuro con una linea di malinconia, però poi ci entrava e cercava di starci comodo. Lo salutavo sempre con una battuta, una risata e una stretta di mano sincera, a ringraziarlo del tempo che mi aveva dedicato e del suo insegnamento non imposto. Avrà avuto trent’anni più di me, ma non sentivo la differenza, se non per il baffo bianco e retrò.
Un giorno mi chiese un appuntamento fuori programma: accettai senza esitare e con un po’ d’ansia, per la verità. Mi aspettava sorridente nel parcheggio, quando arrivai, passeggiammo un po’ fuori l’ufficio e mi spiegò la novità: passava il testimone dell’azienda. Al figlio. Alessio, fino a quel momento si era divertito, era diventato maestro di salsa e bachata, ma ora era tempo che lasciasse i passi di danza per quelli nell’impresa di famiglia. Il signor G. aveva perso quella malinconia di fondo per far spazio a una gioia piena, orgoglioso che suo figlio fosse disposto a succedergli.
Il cambio di generazione era una magia che avveniva davanti i miei occhi e io ero felice di farne parte.
L’eredità non sono soldi o beni, che aumentano, diminuiscono, si sgretolano, cambiano i gusti.
La vera eredità è passare il testimone della vita con gioia, fierezza, onore: lasciarne traccia, insomma.
L’unico vantaggio della morte prematura è che ferma il tempo. Quando è morta mia mamma è stato un dramma, uno strazio anche se non ne cogliessi appieno la portata. A dodici anni hai una visione veramente semplificata del mondo, i cui confini coincidono con quelli infinitesimali del tuo. Non esiste altro e te ne fotti degli altri, persino di lei, tua madre, che è lì distesa immobile in quella chiesa, che puzza di incenso e di gente.
L’unico cazzo di guaio in quel momento è che lei non ti sarà più di aiuto, supporto, risorsa e soluzione per tutto il tuo esistere.
Oggi non riesco a immaginarmela diversa da com’era l’ultimo giorno che l’ho vista. Sarebbe ingrassata? Avrebbe tinto il bianco dei capelli? Quali sarebbero ora i segni della vita: rughe o cicatrici? Avrebbe lasciato mio padre? Lui, così diverso da lei, o dal ricordo che ne ho.
Semplicemente, lei non è anziana: continua a essere la gnocca quarantenne con l’aria furba da liceale. Sono io quello più adulto, quello più vecchio.
In fondo, devo sbattere il muso contro la triste verità di quanto poco la conoscessi e quel che mi è rimasto di lei è attraverso il riflettore sbilenco di un moccioso. E mi ostino a pensarla al presente come fosse viva e come se non fosse una semisconosciuta. Ho vissuto meno di un terzo della mia vita con lei, compresi gli anni inconsapevoli e impalpabili da poppante. Ad alcuni collaboratori e conoscenti ho dedicato decisamente molto più tempo.
Poi mi ricordo di una parola strana, prima si forma nella testa, ma appena dopo ne esce e si materializza sulla libreria di fronte, con le lettere che cominciano a ballare, a dimenarsi, pazze. Si sbracciano per farsi vedere. Sono talmente scalmanate nei movimenti che non riesco a leggerle nell’insieme, ma devo comporre la parola con lo spelling per coglierne il significato: Imprinting.
Non è da tutti avere la versione a fumetti di sé Al mio ci ha pensato This_Wooden_Doors Il risultato è stupefacente. Come sempre! Thank you very much #WhitakerAcademy#conlaportaaperta #michelepalmieri
È il mio primo libro letto di questo autore. Di Grossman ne avevo solo sentito parlare, ma senza mai conoscerlo sul serio. E ho voluto rimediare.
“La vita gioca con me” è ispirato a una storia vera, ma non biografico e penso basti una sola parola a descriverlo: straordinario. Racconta sottovoce, con uno stile unico e una forza particolare. Parla di famiglia, relazioni, legami a volte slegati, intrecci, guerre, angherie e soprusi nei gulag. Ed è fatto di viaggi. Prima nei personaggi, poi nei territori impervi della ex Jugoslavia. Infine, dentro di sé, lasciandoti inebriato, ma solo, per come possono essere certe storie.
Non sapevo che Grossman fosse nato a Gerusalemme, l’ho scoperto in seguito in quarta di copertina, tenendo il libro tra le mani, e, istantaneamente, il mio pensiero è andato a Amos Oz, un altro mostro di bravura. Non può essere un caso: la scrittura israeliana ha un inchiostro potente, irresistibile. E cogli la differenza tra scrittore e autore, forse.
Cominciò a girare voce che volessi dimettermi dal cda, pur non vendendo la mia quota. Voci che correvano più di altre, altre che rallentavano per poi incontrarsi, creandone di nuove. In azienda, svoltavi l’angolo convinto di trovarci solo la pianta di sempre e invece, a tenergli compagnia, c’erano pure due a confabulare, mimetizzati tra le foglie. Il distributore automatico sembrava rotto, tanto il ronzio del parlottio delle coppie che si alternavano di continuo. E allora, decidevi di prendere un caffè al bar vicino ma, nascosti dietro dei bicchieri, ce n’erano altri due che arrossivano vedendoti. C’è il pudore della discrezione quando si fa taglia e cuci delle voci: sempre a due a due, come fosse un rito sacro.
In pubblico non mi si chiedeva niente, ma in privato era un turbinio di domande e offerte. Alcune sincere. Tutte le altre, sincere uguali per carità, si preoccupavano per me, mi chiedevano la fondatezza delle voci e se potessero fare qualcosa. Che tenere queste stelline del firmamento. Restavo dolcemente sorpreso, salvo poi scoprire, indagando meglio, che erano sensibilmente meno uguali, così saltava fuori il vero motivo dell’interesse: il mio posto. E ancora di più la mia rappresentanza nel consiglio di amministrazione, visto che non mollavo il malloppo di azioni.
Conservo sempre bei ricordi delle mie aziende, anche quando non sono più mie, proprio perché evito che diventino luoghi tossici, intestardendomi a restare oltre il dovuto.
Da quelle parole, da quei comportamenti mi resi conto che le persone fossero poche, innumerevoli i personaggi, invece. Ovviamente, le voci erano fondate, perché partite da me, ma diffuse da chi avrebbe dovuto tacere. Decisi di vendere anche le azioni, quindi. Nel lungo discorso di saluto, fatto di molte frasi stucchevoli e superflue, della più classica circostanza, non potei fare a meno di rimarcare come nelle fusioni e nelle acquisizioni io sceglievo. Sempre. Gli altri venivano comprati. Sempre. Come nella vita, forse.
Le amiche di mamma mi facevano sempre domande, tante e sempre uguali. Tornando dalla scuola calcio, spesso le trovavo sul divano a parlare e a bere caffè. Io, decenne, mi imbarazzavo per quelle attenzioni e arrossivo sotto il sudore della partita. Una mi piaceva tanto, era bionda, ma era tinta. Io non lo sapevo ancora che non fosse bionda naturale, ma mi sarebbe piaciuta lo stesso pure se lo avessi saputo. Aveva sempre le unghie e le labbra spalmate di smalto e rossetto vistosi. A mio padre invece, era antipatica, ma credo mentisse e piacesse pure a lui. Lei non domandava, ma passandole vicino, mi tirava a sé per piazzarmi un bacio forte sulla guancia. Avrei voluto morire dalla vergogna, perché sentivo di puzzare come un animale. E come un bambino. Però, con i mesi che andavano, le passavo vicino sempre più spesso.
«Allora, ce l’hai la fidanzata?» era la domanda che, in assoluto, odiavo di più, la più ricorrente, tra l’altro. Poi una volta, mamma raccontò loro del colloquio scolastico, da cui emerse su tutto “si impegna con costanza”, citando la maestra. La bionda, mi strinse il braccio ai fianchi e, come volesse sussurrarlo – ma facendo sentire a tutte – mi disse «Albert e ora vogliamo sapere tutto di questa Costanza.» sigillando col solito bacio rumoroso, pulendo subito con il dito perché, aggiunse, altrimenti Costanza si sarebbe ingelosita. Sulle prime non colsi il gioco di parole, poi cercai di controbattere, ma non uscirono frasi, solo imbarazzi paonazzi e impacciati. Tutte erano divertite, però da lì in avanti, domandavano sempre meno, passando, maggiormente, a scherzare su come – e soprattutto cosa – studiassi con Costanza, quasi a trattarmi non più da moccioso, ma uno di loro, un adulto. Per caso, così, un risultato passò, con l’imbarazzo che sfumava, via via, un po’ di più.
Il giorno del funerale di mamma, la bionda venne, si abbassò alla mia altezza e mi baciò. Il rossetto rimase attaccato alla guancia, ne sentivo la consistenza. Poi mi strinse forte, tenendo il viso premuto al mio e un po’ di rossetto si trasferì dalla mia alla sua faccia. Sentii un calore strano che tenni stretto, senza dirlo a nessuno.
Ci invitano a teatro. Andiamo in quattro, senza sapere nemmeno il titolo, figuriamoci trama, attori, compagnia. Di solito, declinerei, ma la causa è nobile: l’intero incasso sarà devoluto in beneficenza, per cui, senza porre domande, entro nello smoking ed esco fiero di casa. Assistere alla rappresentazione di una compagnia amatoriale mi mette curiosità e gioia. In teatro, nel ritardo in cui siamo confinati, sento nel parlottio, che l’opera è una tragedia e gli attori hanno provato per mesi. Non resta che gustarmi lo spettacolo, quindi, fa niente che mi stiano rubando sonno.
Alle prime scene mi scappa da ridere, ma dovrei essere travolto da suspense e pathos. Qualcosa non va e cerco di controllarmi, senza girarmi di fianco.
Mi piace molto il teatro, mi appassionano i tempi, l’aria pulita che si respira, i messaggi profondi che arano terreni generosi. E rispetto molto il lavoro, il lavoro di tutti, però è importante che l’aspetto amatoriale non vada a confondersi con il dilettantismo. Qui ci troviamo di fronte a ruoli raffazzonati, trama scadente e prevedibile, interpretazioni di bambini al saggio dell’oratorio. Tra il primo e secondo atto scopro che non c’è stato studio, impegno, sudore, solo tempo, a questo punto, perso.
Finalmente, arriva il finale. Una specie di babbo natale fuori servizio e fuori taglia sta per ammazzare la bella dell’opera. Si gira verso il pubblico, mi guarda negli occhi e con una pistola dei fumetti spara due volte, muovendo la mano come agitasse un frustino che non avrebbe centrato l’obiettivo nemmeno se il cuore si fosse suicidato, andando incontro ai proiettili. Io scoppio in una risata che a stento reprimo nelle mani portate alla faccia, dopo non essere riuscito a trattenerla nelle viscere. Da fuori potrebbero sembrare singhiozzi sconvolti per la fine cruenta e triste. Ma io ci tengo a puntualizzare la motivazione vera: l’evento è stato solo farsa e qualunquismo, senza arte, passione, bravura. L’unica speranza è che il ricavato possa servire a qualcosa di buono. Esco stranito e senza applaudire, con un senso di incompiuto.
Bene, me ne mancavano rompiscatole, oggi. Mettiti in fila.
Non potrai mai capire il danno che hai procurato a qualcuno, finché non ti verrà causato lo stesso danno.
È cominciata così la mia giornata, appena l’ufficio è andato animandosi con qualche passo e un finto brillante vociare.
Ovviamente, non avevo il karma alla porta, solo che M. stava provando a rivendicare i suoi spazi con una boutade inutile quanto insulsa. Dovrebbe conoscermi abbastanza bene da sapere che non mi faccio certo prendere dai sensi di colpa.
Quando prendo una decisione, di solito frutto di una condivisione in plenaria, guardo al bene dell’azienda e non mi preoccupo che il singolo soffra o resti male. Specie quando il singolo in questione è un arrivista, competente il minimo, e pure un poco scansafatiche. Ora rivendicherebbe la mancata promozione, con annesso aumento, attribuendone a me e non a sé stesso la responsabilità. Solo che non ha nemmeno il coraggio di affrontare seriamente il discorso, con delle argomentazioni magari, ma cerchi di fare il simpatico con questa filosofia spicciola che pure Facebook se ne mortificherebbe.
Ok, ammetto che potrei non capire il danno procuratoti, ma se il problema è come penso, tranquillo: ti regalo dei biglietti da visita e la firma della mail con il job title che non avrai mai, ma in modo che tu possa comunque sfoggiarlo in giro.
Un Dott. Ing. Dir. Mega Presidente non si nega a nessuno, ma sempre un signor nessuno resterai. Anzi senza nemmeno essere un signore.
“Fu l’inizio del più grande Natale di sempre. Poco cibo. Nessun regalo, ma c’era un pupazzo di neve nel loro scantinato. Ma c’era un pupazzo di neve nel loro seminterrato.” Markus Zusak, Storia di una ladra di libri
Ancora pochi per regalare un sorriso, acquistando una copia di “Con la porta aperta”…more information su https://www.palmierimichele.it/2021/11/30/con-la-porta-aperta-15-a-onlus-comasca/
A dicembre ricorre un anniversario: un anno dall’uscita di Con la porta aperta. Un anno incredibile, inaspettato, di emozioni forti e nuove. Tutte belle, tutte importanti.
Per questo è doveroso festeggiare. A modo nostro, però. Condividendo i nostri sorrisi con la Onlus #Unsorrisoinpiù, a sostegno degli anziani.
Come? Per ogni libro – cartaceo o ebook – venduto a dicembre 2021, devolveremo il 15% del prezzo di vendita.
Gli anziani sono la nostra memoria, la nostra storia, la strada per il nostro futuro. Non possiamo non tenerne conto, non possiamo permettere che siano un tassello debole della società, talvolta trascurati, anche dalle iniziative benefiche.
Ci avviciniamo al Natale, con i libri tra i regali più gettonati. Non c’è occasione migliore per unire, quindi, un piccolo gesto di solidarietà alla strenna sotto l’albero per i nostri cari.
#Conlaportaaperta è una raccolta di 12 racconti, tra loro molto diversi: alcuni temi sono leggeri, tipo “abbordare” una ragazza, altri più impegnativi, contro la violenza sulle donne, per esempio.
C’è lo spazio per riflettere, farsi una risata, incazzarsi o indignarsi, senza giudicare, ma traendone esperienze. Parlano delle relazioni, tra amici, parenti, amanti, conoscenti. Quella predominante, però, è la relazione del protagonista con sé stesso, il suo profondo legame con le cose, i luoghi, i modi di vivere la vita.
In ogni racconto c’è una traccia o la si vuole lasciare con il contributo del lettore, con le sue storie e i suoi coinvolgimenti…con la porta aperta, ecco.
Il libro è in vendita a 12€ cartaceo e 5€ ebook, su Amazon o prenotabile in alcune librerie.
“Simple Stories” mi ha fuorviato. Pensavo di finirla presto e archiviarla, invece è sulla scrivania per essere sfogliata, gustata, apprezzata ancora. Le immagini ti catturano, trovi l’arte per come dovrebbe essere sempre: accessibile, semplice, lampante, appagante, senza bisogno di essere spiegata. È lei a metterti sotto esame, non viceversa. È lei ad acquisirti, non viceversa.
Chiariamoci, non è una raccolta a fumetti, non è un libro. Non solo, almeno. È un pezzo di arte: non doveva essere pubblicata, erano sperimentazioni del genio di This_Wooden_Doors, ma il successo a furor di popolo delle prime bozze, l’ha costretto a raccogliere, di malavoglia, le short story in un prodotto da vendere.
È bella, piace anche a chi non segue i fumetti. Uno stile chiaro, definito, pochi tratti, semplici, puliti, poche parole, quelle giuste, colori profondi, eloquenti, scene nitide, senza ipocrisie. Libera emozioni e gioie che avevi sì, ma non sapevi di possedere.
Come ogni sperimentazione, dentro c’è tanto: il cinema scandinavo, il genere gotico, il black metal, lo humor. Il fil rouge è l’esigenza di fare fumetti nel modo più libero e istintivo possibile. Semplice.
Insomma, è nata per gioco, ma fa sul serio. Leggetela e provate poi a dirmi che non vi ha conquistati.
This_Wooden_Doors nasce a Capua, ma ora vive a Modena e fa arte a Bologna. È in Emilia che cambia nome, ma al sentirsi chiamare “Marcello” istintivamente risponde. È fumettista già da qualche anno e non si separa dal blocco per gli schizzi e dal vasetto di china. A volte sembra stia in un mondo tutto suo, che è vero, perché l’ha proprio disegnato e prima o poi si degnerà di ospitarci!
Nel 2020 fonda, con Caterina Losi, RamarroMarrone, persone con la erre moscia che pensano, progettano, disegnano, fanno. E Simple Stories ne inaugura la collana dei fumetti.
Ero un ragazzino stronzo, d’accordo. E lo sono pure rimasto, stronzo, non ragazzino. Questo perché – a mia parziale discolpa – non ho mai sopportato quelli che usano l’autorità senza l’autorevolezza. Può darsi che a quell’età non lo sapessi mettere in fila lucido il pensiero, ma le azioni che ne seguivano erano più o meno simili a quando ne ho poi avuto coscienza. Ho, per giunta, sempre avuto il maledetto – o benedetto – vizio di non farmi intimidire da complessi di inferiorità, fisica, di ruolo, di classe, di status. È per questo che un bullo – un bullone per quanto era grosso – tentò di strangolarmi nei bagni della scuola, in seconda elementare o me ne sia uscito da una società sbattendo la porta, stringendo un pugno di mosche, di quelle appena volate dalla loro materia preferita. Comunque, tornando a prima della lunga divagazione, sì alla dichiarazione di stronzaggine: ero al catechismo per la comunione, insieme a un piccolo gruppo di colleghi, costretti dai genitori e non dalla vocazione, tutti in attesa del catechista che non arrivava. Arrivò, invece, un supplente, come quelli improvvisati a scuola. Esordì proponendo a noi di scegliere cosa fare, fra due opzioni: giocare a calcio nel cortile delle suore o fare le prove per la Via Crucis. Una figata. Vinse il calcio quindici a uno. Una strafigata.
Ma lui non fu dello stesso parere, invece, e disse che non sarebbe stato giusto, per noi, il catechista in carica, egli stesso, Dio (sul serio?).
Avremmo fatto le prove.
Battibeccammo un po’ io e lui, finché non mi alzai e me ne andai, convinto che mi avrebbero seguito solidali gli altri. Sentii, invece, in lontananza l’intro di Pilato e subito quindici voci in coro “Crocifiggilo”, quelle dei traditori.
Il problema non era recitare, mi piaceva pure. L’avrei fatto se non mi fosse stata data l’opzione o se avesse passato il referendum. Avrei rispettato il volere popolare o del responsabile. Ma così non ci stavo.
Presagivo ammonimenti, convocazioni, bocciature, ma non ce ne furono.
Non è mai sbagliato esprimere preferenze, è sbagliato non rispettare quelle degli altri.
Mi piace il lavoro, mi completa e rende migliore. Certo, ci investo tempo, concentrazione, formazione, ma mi reputo fortunato nel fare il lavoro che adoro. Fa niente che a sei anni volessi fare il contadino, ma per certi versi il mio è un coltivare continuo; perciò, è un po’ come se l’avessi realizzato il sogno di quel bambino.
Incontro tanta gente, invece, che lavora solo per lo stipendio, si sporcherà pure le mani, ma non l’anima. Ecco, se arrivassi a questo, mi sentirei frustrato, sentirei di aver fallito, vivrei in un incubo.
È da un’anima che fugge e arriva a un tavolino di un bar, Il numero 4, che parte questo racconto, che non avrei terminato senza la spinta della mia prof di scrittura, con #vascorossi in sottofondo.
Il seguito è finzione della mente, nella realtà delle parole.
Un po’ di anni fa ho conosciuto un manager, simpatico, gentile, corretto, garbato, competente. Una bella persona, insomma. Abbiamo ideato, concluso e siamo stati spalla, a vicenda, in diverse operazioni di successo. Eravamo stati presentati da un amico comune.
Avevamo opinioni diverse, si vedeva, a volta addirittura contrapposte, ma il rispetto per l’altro ci faceva convergere, comunque, su posizioni di dialogo, confronto, senza mai perdere l’educazione e la stima. E poi, c’erano le idee: quelle spesso confluivano nel medesimo incubatore, e ci legavano.
Mi piaceva talmente la sua compagnia che, una volta terminate le nostre frequentazioni professionali, ho voluto portarlo nella mia vita privata.
Ho incontrato un’altra persona. Rozza, attaccabrighe, volgare e senza quell’ironia e autoironia, che l’avevano contraddistinta e tipiche delle persone intelligenti e brillanti. Pronunciava parole intrise di insulti e supponenza, colme dello stesso odio che tanto odiava nei suoi avversari, non più persone ormai, in una lunga e triste battaglia col mondo.
Era il nodo della cravatta, quindi, a tenerne legata la vera, insulsa personalità, ne ho dovuto dedurre. Dismessa quella e infilatosi in una polo diventava un altro. O solo sé stesso.
L’ho allontanato dal mio presente, ma non dai miei ricordi. Ne conservo geloso i consigli, gli sproni, le storie. Una volta mi disse del suo amico divenuto Presidente, a cui cominciò, da quel giorno, a dargli del lei. L’amicizia resta, ma era per il rispetto della carica, mi spiegò. Non colsi appieno, allora, lo capisco oggi, invece.
Le risate uscivano rumorose dall’ufficio, dove entrava sempre un raggio di sole, quando ci incontravamo. È per questo che voglio ricordarlo, altrimenti il tempo passato insieme, sarebbe stato solo tempo perso.
Nonostante siano passati 10 mesi dall’uscita, “Con la porta aperta” viene ancora letto su Kindle Unlimited e, in un giorno, Amazon ne ha spedite 10 copie del cartaceo!… Gran botta di adrenalina, unita a una prossima “spedizione”!!! …stay tuned
Avevo premuto con rabbia il polpastrello sull’icona rossa dello smartphone, per chiudere una telefonata molesta. Con violenza, poi, l’avevo lanciato sul piano, nemmeno fosse colpa di quel povero aggeggio l’avermi fatto sbraitare con un cialtrone. Per sfogarmi andai direttamente alla macchinetta del caffè, come a farmi consolare da un amico.
Anziché ritornare alla scrivania, ripiegai verso la finestra, per guardare la pioggia scendere e mettere una distanza tra me e quel malessere. Più sorseggiavo il caffè più mi rilassavo. La pioggia lavava l’aria, il caffè puliva me. Decisi di dedicargli qualche riga, per ringraziarlo. Avrei fatto un’ode, conclusi. Come quella al pomodoro, vaneggiai.
Una volta seduto, realizzai di non essere Neruda e non sapevo come uscirne. Però, volando basso è nato Mug blu.
Il seguito è finzione della mente, nella realtà delle parole.
Un sì, al posto di un no e la mia carriera, la mia vita, sarebbero potute cambiare radicalmente. Avrei percorso strade diverse da quelle poi imboccate e a volte addirittura tracciate. Durante una corsa in auto.
Un amico mi chiese di accompagnarlo, una domenica mattina. Per una commissione rapida, aggiunse. Poi avremmo pranzato con un’isola davanti e il mare in mezzo, aggiunse ancora. Ovviamente accettai, non so se per le aspettative paesaggistiche e gastronomiche o solo per fargli compagnia. Sapevo che avremmo corso, non immaginavo che avremmo consumato gli ottocento chilometri, tra andata e ritorno, quasi sempre oltre i centoottanta all’ora e punte di duecentotrenta.
Mi piacque molto quel viaggio, sentivo tutti i cavalli del motore – scalpitanti e rabbiosi – percorrermi la schiena, il sedile sportivo in pelle mi teneva saldo, stretto, come l’infermiere tiene un matto da dietro. L’andata passò senza segni, una corsa folle in cui preferimmo gustarci l’adrenalina scatenata dalla velocità, anche stando solo di fianco, usando parole con poco significato dentro. Parlammo, sì, ma di serate fuori e incroci con le persone, donne e macchine, manco fossero intercambiabili. Al ritorno pilotò abile e sicuro, oltre che la coupé, nera e lucente, anche il discorso, che durò quanto la strada, imperniato un su una proposta di impresa. Un po’ per la sorpresa, un po’ perché avevo imbastito altri progetti, di più, forse, perché proporre e dire mi piaceva più di quanto mi venisse proposto e detto, rifiutai senza riflettere e senza ripensamenti, con la stessa velocità alla quale viaggiavamo. Ci vedemmo poche altre volte e, quando ci incontriamo, ci salutiamo solo da lontano.
È diventato un pezzo grosso, ricco, accerchiato da accoliti sognanti, non so se per leadership o interesse.
Ultimamente, per qualche giorno ho pensato a come sarebbe andato il mio sliding door.
“Va bene così, mi sono ripetuto, fino a convincermi”.
Però mancano quelle corse in auto e quelle chiacchiere intrise di leggerezza.
A due passi dall’albergo scovai un parco, pieno di panchine, di alberi e di verde, con un anello intorno, ideale per la corsa. Così andai a correre, immerso totalmente nei pensieri, credevo che sarei stato da solo, mi trovai invece circondato da cani, dog-sitter, runner. E una vecchietta, ma senza gli umarell. Tanta roba, insomma per non farci qualcosa. Inconsapevolmente, accelerai la corsa, scoprendo energie ignote e un’allegrezza di fondo. Uscii velocemente dalla doccia, approdai al tavolino di un bar – perché faceva tanto Hemingway – e ancora più velocemente dai tasti uscirono “I Baldi”, cugini di secondo grado. Quella sera di giugno 2018 arrivarono stelle nel cielo, risate nel cuore e uno spritz a brindare con Milano.
Il seguito è finzione della mente, nella realtà delle parole.
Era il 22 luglio 2018, una domenica. E aspettavo. Tante cose e una persona.
A Noto, sulla via principale c’erano, ovunque, il caldo e la bellezza siciliani. E per cercare di smorzarne uno e ampliare l’altra, mi rifugiai in un Inzolia freddo, di fronte il Duomo. Ma l’Inzolia fece altro: sprigionò dai ricordi gli spettacoli tra le calette e mi presentò un uomo e la sua sirena, forse intravisti altrove.
Con l’odore del mare che sentivo addosso, con il profumo del vino dal calice al naso, nacque “Meno di tre passi”. Senza ingannare l’attesa, creando un’ora di spazio, un’ora di vita.
Il seguito è finzione della mente, nella realtà delle parole.
Mi frullava in testa una trama strana e, per questo, mi intestardii. Una storia difficile, cruda e solo un personaggio forte e interessante poteva assumersene l’onere di realizzarla. Era lì che mi infastidiva, si intrometteva nei pensieri. Dovevo liberarmene.
Casualmente, una sera, lo scoppiettio di un fuoco liberò, dai ricordi assopiti, una donna conosciuta anni prima, la sua voce e i suoi gesti e i suoi sguardi. Poi realizzai di quanto fosse solo una ragazzina. Diversa, però. Scaltra, forbita, ironica, irriverente, a tratti stronza, forse. Determinata, capace e bella, pure. Avevo trovato la mia protagonista. E nacque “Irish”.
Il seguito è finzione della mente, nella realtà delle parole.
Inutile girarci intorno: Pietro non è mai stato una colonna dell’azienda né un manager competente. Lo abbiamo tenuto e mantenuto, solo per far contento zio Milvio, e finché ci costava solo in stipendi, benefit e rimborsi bizzarri e generosi, passi. Ma ormai non si trattava più – solo – di pagare caffè e pasticcini a inutili passacarte e perfetti sconosciuti, faceva danni anche solo aprendo bocca. Può anche darsi che in passato qualcosa di buono l’abbia fatta, ma non se n’è trovata traccia.
Decidiamo, quindi, di collocarlo in ferie, dovrebbe starci molti mesi, per azzerare tutte quelle mai prese: spudoratamente in vacanza da anni!
Risparmiamo i caffè e i danni collaterali, ci consoliamo, dopo aver fatto digerire la cosa anche a zio Milvio, messo di fronte a inequivocabili evidenze. E iniziamo così ad allontanarlo dall’azienda definitivamente, pensiamo.
Comincio quasi a considerarlo un simpatico e nostalgico ricordo, da riderne alle cene goliardiche, quando lo incontro al tavolino del bar, di fianco al mio sarto. È lampante l’imbarazzo, sottolineato dalle guance, dello stesso rosso della cravatta. Per il resto, ha il suo abito blu migliore e l’inseparabile agenda, che ho sempre immaginato con i fogli intonsi. Quel nome dorato, in rilievo sul cuoio, l’ho sempre trovato di cattivo gusto e fuori moda, ma non gliel’ho mai detto.
Mi confida, a questo punto, di non aver comunicato le ferie in famiglia e così esce di casa ogni mattina regolarmente, come fatto negli ultimi trent’anni, manco dovesse salvarci dal fallimento. «Sai – continua – loro mi attribuiscono un ruolo decisamente superiore.»
“Chissà chi glielo abbia fatto percepire” penso, ma taccio, saggio sì, ma spossato da questa situazione incancrenita.
Tempo qualche giorno e scopriamo di come abbia portato avanti alcuni affari durante le ferie, per attaccamento all’azienda, ha sbottato lui, ma costruendo parallelamente altri problemi e sempre più grossi.
E niente, alcuni sono proprio infestanti e deleteri come la gramigna, ma si danno le arie dell’aloe vera.
“Alba, nella notte” nasce in un ufficio spoglio e brutto. Un collega, quando poteva, mi raccontava frammenti della sua vita, come fossero trailer:
un sabato, dopo il lavoro, corse a Montecarlo, per sesso e champagne,
era volontario presso un centro di sostegno psicologico, gli serviva per l’università.
due sue amiche avevano acquistato loro stesse e operavano in proprio, ormai, come prostitute. E qui mi sono incagliato: Alba, come la nascita di un giorno nuovo e la canzone di #vascorossi. E sì, lui somiglia a Fabio!
Il seguito è finzione della mente, nella realtà delle parole.
Ogni racconto ha una sua vita e una sua storia. “Tre sassi soli nel deserto” nasce in una notte d’inverno, in un sogno, in cui la prima scena è una stanza un po’ annebbiata con il protagonista triste e muto. Arriva lei e si presenta “Sono Giulia, Giulia Ostero”. Il nome di lui non è importante, invece. Il protagonista sente l’alito di lei sulla guancia. Poco dopo tutto sfuma nel frastuono di una sveglia invadente. Il seguito è finzione della mente, con la realtà delle parole.#whitakeracademy #michelepalmieri#conlaportaaperta
“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera è soltanto uno strumento ottico per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso” Marcel Proust
Sulle cose lascio correre, è il mio modo di fingermi asceta. Di solito. Poi se mi impunto, beh, è diverso: ci provo proprio gusto a fare il cagacazzi.
A cinque giorni da una disavventura dal meccanico, ci sono dovuto tornare per il tagliando. La volta prima, quella della disavventura, non gli ho cantato le classiche quattro, ho fatto proprio un miniconcerto live. E, uscendo, ho fatto pure gli occhi torvi, come nella migliore tradizione dei rocchettari maledetti.
Non sapevo che aspettarmi, quindi, ma sapevo che si sarebbero ricordati. Comunque, lascio la macchina e salgo sul taxi per andare in ufficio.
Quando torno a riprendermela, all’accettazione, corrono furtivi gli occhietti di Giada, riparando in quelli di Augusto, l’addetto alla riconsegna. Non riesco nemmeno a salutare e non capisco. In verità, mi agita un po’ la cosa, ma dissimulo, da stronzo consumato.
Qualche secondo e sento la basculante alzarsi, mi affaccio e vedo il muso cattivo e stupendo della mia macchina. Cesare, il titolare, scende molleggiando tanto è contento, come un bambino che ha vinto ai videogiochi, e non riesce a frenare le parole:
«Dotto’, l’ho provata personalmente e per farmi perdonare, l’ho fatta pure lavare!»
Effettivamente, pare illuminata, brilla che nemmeno nuova era così. Lo ringrazio pure io molleggiando e ridendo, sodale, manco me la stesse regalando l’auto.
E nel finale mi dà il pass vip che agguanto al volo: «La prossima volta si rivolga a me, Augusto è meno affidabile.»
Non gli dico che non avrebbe dovuto, che era tutto a posto, le solite smancerie, insomma. Non c’è niente da fare, il muso duro, le parole grosse, la faccia tosta – mia e sua – a volte pagano.
Però l’ho perdonato e apprezzato. Ha recuperato un torto senza ipocrisia e senza servilismo, con l’arte del saper vivere.
È un libro di sentimenti forti e contrapposti, ma mai distanti.
Solo Marilena Lucente poteva realizzare un’opera sulle donne, così difficile per le donne, senza il rischio di deragliare nella demagogia, nell’aria delle parole vuote, dette perché dovute, ma non proprie.
Così la scelta delle protagoniste: non donne semplici, con percorsi lineari, idolatrate magari, dal like facile, per intenderci. Donne, invece, con addosso decisioni definitive, discusse, che hanno fatto scelte determinanti, definitive. Con coraggio e follia.
Leggere questo libro non è leggere l’autrice, che è riuscita a farsi “da parte”, però rimanendo vigile, è parlare direttamente con Medea, Didone, Penelope: sentirle pronunciare parole che fanno male “Le mie parole non gli parlavano più“ …che c’è di peggio? Come si fa a non andare avanti e volerne sapere di più?
È prosa, d’accordo, ma – so di averlo già detto per un altro suo libro – è strapiena di poesia, di quella che ti fa stare bene, quella che dà un senso alla lettura, alla serenità, alla vita.
Ogni racconto, ogni pezzo dell’avventura delle tre donne è un distillato di parole, ognuna al posto giusto, nessuna di troppo, ognuna con un ruolo preciso e un’anima propria. A “Medea è un nome addormentato che abita tutte le donne” …cosa si potrebbe aggiungere se non un applauso?
La scrittura di Marilena Lucente non è mai banale, mai una frase fatta, ti prende per mano e ti porta in giro per le pagine, nelle pagine, senza farti sentire il peso di diventarne dipendente e, per questo, senza lieto fine, perché all’ultima riga hai terminato un viaggio che speravi durasse di più.
Comprare “Trilogia delle donne dell’acqua” non è acquistare un libro, è un biglietto per il Paradiso, con Beatrice come guida. Grazie Marilena!
Zio Milvio è venuto a trovarmi in ufficio. Un’improvvisata. Ne fa, ma non spesso e io, anziché fare gli onori di casa, ho cominciato a lamentarmi di lavorare tanto, troppo, non avere tempo libero a sufficienza. E, intanto, ne stavo rubando un altro po’ a entrambi, invece di godermi il momento. Si alza, apre il mobile dove tengo le bottiglie e, con calma, si versa una generosa porzione di Lagavulin 16 anni, quello che sa un po’ di fumo, come dice lui. Poi, tra lo spazientito e il divertito, mi fa: “Diciamoci la verità: questa è come te la racconti. In realtà non sapresti starci nemmeno un mese, lontano dall’azienda.”
E comincia a ricordarmi di quanto mi gratifichi, diverta, appaghi, renda felice. Di come il lavoro sia ovunque nella mia vita, in ufficio e non.
Certo, capita la giornata no, in cui manderei – dice lui – affanculo il mondo, innocenti inclusi, ma questa è un’altra storia.
Lavorare, e fare questo nello specifico, pompa adrenalina, tiene vigile e svegli. Non è, probabilmente, nemmeno il legame emotivo con i collaboratori, l’azienda, i soci. Ci si può farne a meno, delle persone e delle cose, almeno così ci si convince.
È l’essere un ingranaggio di una delicata catena di montaggio a farmi stare bene, mi spiega. Sapere che senza di me, il sistema si fermi, si inceppi o anche solo rallenti: È magia e incantesimo.
Mi regala un potere, ma soprattutto una gioia, che lo stipendio e gli utili e i benefit non riescono a comprare. E poi c’è la fortuna di incontrare un sacco di gente. Individui capaci, illuminati, caparbi, ma anche incompetenti, quando non dei completi idioti. Brava gente e delinquenti. Truffatori e onesti padri di famiglia. Persone con una dignità solida da sorreggere palazzi e altri con la spina dorsale di formaggio spalmabile. Scaduto.
Da tutti si impara.
“E tu, zio Milvio non smettere di insegnarmi” – ma non l’ho detto, l’ho solo pensato. Non le diciamo mai abbastanza certe cose, però in qualche modo, trovano la strada per arrivare.
Mi vortica la stanza intorno e il letto sotto e non mi riesce di dormire. L’open bar ha dato buoni frutti, a quanto pare e, da professionista consumato del dopo sbornia, aspetto paziente svaniscano gli effetti. La camera e il letto non girano per davvero, in cuor mio lo so, però la mente non riesce a capacitarsene lo stesso. Mentre combatto con questi enigmi, sento lo scroscio della doccia. Ovviamente non do credito alla cosa, so di essere solo in camera. Poi però l’acqua diventa più insistente e sento pure un leggero sibilo, come un fischio, lieve, lontano. Devono servire alcol veramente potente, qua alle Maldive, penso, racimolando quel che resta di me. Una mano gigante mi raccoglie dal lenzuolo, come facendo la scarpetta dal piatto, quindi mi mette in piedi: non mi resta che andare a vedere. Il giallo fluo della pinna sul bordo della vasca mi attira subito, ma, di più, mi stupisce il tizio sotto la doccia che canticchia con gli occhi chiusi, la cui presenza conferma che non sono pazzo o ancora ubriaco.
Abbiamo l’overwater attiguo e, salendo dalla laguna dopo aver rincorso una murena, il “genio” ha sbagliato scaletta entrando nel mio bagno anziché nel suo. Mica si è posto il problema che in bagno ci fossero un boxer non suo, lo shampoo che non si è portato da casa e il beauty che hanno regalato a me e non a lui? Ho aspettato che finisse la doccia, con le mani in tasca e un ghigno in faccia. Siamo diventati amici, non potevamo non esserlo. Beviamo insieme, da allora a C. e ancora ne ridiamo.
Non mi piace l’open-space, ma ne abbiamo alcuni in azienda. Io ho un ufficio blindato e tutto mio, nell’ultima stanza dell’ultimo corridoio, all’ultimo piano. Ci devi venire apposta, insomma, fosse anche soltanto per sbirciare. Per questo, i più mi dicono classista, antipatico, snob. Io semplicemente la chiamo “privacy”, ma perché dire in pubblico “non mi piace che ci si intrometta nei cazzi miei”, potrebbe sembrare brutto. Dimenticavo: pure stronzo mi dicono, ma su questo hanno ragione, probabilmente. Comunque, nel mio posto nascosto, sono stato costretto a ricevere due collaboratori, due colonne della E. Appena entrati realizzo che avrei dovuto attrezzarmi con gong e ring, invece di caffè e dolcetti e temo pure di beccarmi uno schiaffo se mi intrometto.
Luca pretende che Alfonso sia licenziato, Alfonso vuole che Luca sia spostato altrove, in modo da non averci più a che fare e vederlo, finanche. Nemmeno capisco l’accaduto e chi abbia cominciato, so solo che devo farli smettere, senza avere una soluzione, però. Non dico che prima dividessero lo sgabello al bar, ma avevano un rapporto solare, cordiale e di reciproco rispetto.
Si sa, più sono insignificanti le motivazioni e più diventa ingombrante la questione di principio e quasi impossibile fare poi un passo indietro. Io, per mio innegabile interesse lavorativo, non posso e voglio scontentare uno dei due, dando ragione a chi effettivamente ce l’abbia e devo districarmi sul filo. Vogliono e pretendono che li separi. Per sempre.
E su queste loro frasi scatta il lampo di genio: «Signori, dobbiamo convivere. Pure con le mogli si litiga e non è che alla prima baruffa si divorzia» sbotto tra il disperato, il rassegnato e l’incazzato.
Manco avessi pronunciato un sortilegio (sarà stata la parola “moglie”), i due fanno la pace e si stringono la mano, dandomi ragione all’unisono.
Ancora mi chiedo cosa abbia detto di così fondamentale: le mie parole erano spinte più da un bisogno esasperato che non da un pensiero filosofico o una soluzione pratica.
E niente, sono questi i momenti in cui mi compiaccio: risolvi la guerra tra Stati Uniti e Corea, quando volevi solo pranzare in orario.
Ho attraversato di corsa la preadolescenza e ancor di più l’adolescenza, convinto di riuscire a domare e dominare gli anni, determinato a voler diventare – ancor prima di essere – adulto, non comprendendone appieno il significato, forse.
Dopo la morte di mamma non ho fatto altro che correre, senza sosta, senza guardare mai indietro e nemmeno di fianco. Senza vedere, niente e nessuno. Solo un lungo e veloce viaggio in avanti, ma in apnea e spericolato.
Oltre che nella vita, anche nello sport correvo: spesso, distrattamente, dietro un pallone e, sempre, ma con impegno e fatica, sulla pista di atletica. Correvo veloce, ma mai abbastanza da allontanarmi tanto dagli undici secondi. Così, li vedevo, sempre, troppi secondi persi che avrei potuto e dovuto destinare ad altro. E un giorno bruciai tutto: completini, scarpe, borse. In un unico fumo, scuro e puzzolente, finirono tessuti e sogni, intrisi di sudore e lacrime.
Non volevo che gli adulti mi trattassero come un bambino, orfano per giunta, o pensassero fossi debole e bisognoso di affetto, mi ripetevo nella testa. In realtà, correvo dal passato e dal presente, concentrato ad allontanarmi quanto prima da quel funerale e quelle pene e quelle scene strane che si susseguivano.
Poi, però, di notte, mi nascondevo sotto le lenzuola, sopraffatto dall’insistenza del tempo, dal peso degli ordini che mi impartivo, dalla paura di non farcela a fare da padre a me e a mio padre che, come un’ameba, sostava nello spazio e fra le cose.
Tutto questo l’ho capito da adulto, ma non saprei spiegarglielo al me ragazzino, se dovessi incontrarlo.
Ho il piacere di comunicarvi che sono stato intervistato da Marianna Visconti, per il blog “Lego et Cogito”.
Abbiamo parlato un bel po’ della raccolta di racconti “Con la porta aperta” e anche un po’ di me, dei miei autori preferiti e del perché scrivo.
Ringrazio tantissimo Marianna per la cordialità, la professionalità, la precisione con cui ha eseguito il tutto e Giovanna Di Benedetto per la foto.
Dopo aver letto l’intervista, fatemi sapere che ve ne pare! Leggi l’intervista
Cari lettori e Care lettrici,
Benvenuti/e al consueto appuntamento con Le interviste di Lego et Cogito. L’ospite della settimana è Michele Palmieri, autore di Con la porta aperta – 12 storie. Le storie descritte in quest’opera fanno parte di un quotidiano comune, in cui ognuno/a di noi riscontrarle sulla propria pelle; inoltre, i racconti si differenziano, volutamente, non solo per la trama ma anche nella narrazione, nella lunghezza, nel lessico utilizzato. Nel corso dell’intervista, l’autore ci parla approfittamente di tale opera, per cui, con sommo piacere, vi lascio nelle sue mani. Buona lettura.
Ciao Michele, presentati alla nostra community e parlaci un po’ di te.
Ciao e grazie a tutti: sono un sales manager e mi reputo fortunato a poter fare il lavoro che mi piace. Mi gratifica guidare e formare un team, dando un contributo alla crescita dell’azienda.
Il mio sogno nel cassetto resta produrre vino e distillare brandy, ma nell’attesa scrivo, principalmente racconti. Proprio da uno di questi è nato Whitaker, di cui scrivo su www.palmierimichele.it e su https://www.facebook.com/albertedwardwhitaker, che si sta creando un suo piccolo seguito, decisamente più di me! 😉
Quando è nato in te l’amore per la scrittura?
Diciamo che c’è da sempre, a partire dalle “conclusioni” nei boy-scout e dai temi delle medie, ma da circa quindici anni, dopo tanto allenamento nella lettura, mi sono dedicato alla scrittura. Quattro anni fa, poi, dopo un corso e un workshop di scrittura creativa, ho cercato di disegnare un percorso a quanto usciva dalla penna.
Qual è il tuo libro preferito?
Questa è una domanda che mi mette sempre in difficoltà: mentre penso a un titolo, ne spunta un altro a correggerlo, ma per citarne uno, non come preferito, quanto come opera che mi ha colpito molto, penso a Giuda, di Amos Oz.
Qual è l’autore o l’autrice a cui ti ispiri particolarmente?
Sono diversi e ultimamente ho imparato a spaziare molto di più tra autori e generi, ma i principali sono Faletti per le emozioni, Bukowski per l’ironia, Palahniuk per la crudezza.
Parlaci del tuo libro: Con la porta aperta. Di che tratta e quali tematiche affronta?
Sono dodici racconti, molti diversi tra loro: alcuni temi sono leggeri, tipo “abbordare” una ragazza, altri più impegnativi, contro la violenza sulle donne, per esempio.
C’è lo spazio per riflettere, per farsi una risata, per incazzarsi o indignarsi, senza giudicare, ma solo portandosi a casa delle esperienze.
Parlano delle relazioni, tra amici, parenti, amanti, conoscenti. La relazione predominante, però, è quella che ha il protagonista con sé stesso, il suo profondo legame con le cose, i luoghi, i modi di affrontare la vita.
In ognuno dei racconti c’è o si vuole lasciare una traccia, ma si cerca di farlo con il contributo del lettore, con le sue esperienze e coinvolgimenti…da qui il titolo “Con la porta aperta”.
Qual è il fil rouge che lega assieme i vari racconti?
Le emozioni e, soprattutto, quello che scatenano dopo, dentro. Spesso ci vediamo costretti – soprattutto da noi stessi – a indossare la maschera delle emozioni, obbligati a esprimerle, ma lasciandole trasparire solo in un certo modo e tipo. Queste storie, invece, vogliono costruire una stanza, intima e segreta, in cui il lettore possa dare sfogo, senza filtri, a quello che si forma veramente e senza la necessità di doverlo dire.
Che messaggio intendi trasmettere con quest’opera?
Quello che mi sono voluto ripetere, con questi racconti, è che di realtà ne esistono di diverse e non sono mai preconfezionate. Noi non cambiamo, ci evolviamo, pescando sempre nelle nostre esperienze, nei ricordi, nel vissuto, nel percepito, soprattutto. Se spostassi Arturo di Vendo capuanelle in I Baldi, e viceversa Andrea, verrebbero fuori storie completamente diverse, così ne verrebbero fuori altrettante, se fossi io a calarmi nei panni dei personaggi. Questa precarietà e questa mutevolezza della realtà sono il vero messaggio.
Chi è il lettore o la lettrice ideale del tuo libro?
Il vantaggio di una raccolta, rispetto a un romanzo, è proprio quella di presentare molti più protagonisti. Ce n’è uno per ogni gusto, insomma. Inoltre, come dicevo, anche i racconti non trattano un tema unico. Ne consegue, quindi, che il lettore rientra in una fascia decisamente ampia. Se proprio dovessi segmentare, direi dai 20 ai 65 anni.
Se ti va, ci lasci una citazione particolarmente significativa del libro?
Certo e, visto che mi piace strafare, ne evidenzio due.
La prima, dal racconto I Baldi:
Quando al parco vedo qualcuna carina, con o senza cane al seguito, tra me e il rottweiler scatta una muta complicità, dove lui intrattiene la bestiola di turno, generalmente minuscola rispetto a lui e io la sua padrona oppure, per quelle senza animali, comincia a guaire malinconico, abbassa la testa, assume un’espressione languida e addolorata, manco gli avessero investito il gatto. Nessuna gli resiste, devono coccolarlo. E, tornati a casa, lo premio con una porzione extra di Dentastix.
La seconda, dal racconto Quante vite, Ari:
Tante volte ho pregato che tirasse fuori la sua pistola e …bang! Tutto finito nel buio e in un rumore che non so se avrei sentito.
Ogni singola, maledetta, stracazzo di volta ho pregato. Forse era una piccola follia, ma era l’unica strada che vedevo per uscire dall’inferno. Però, non l’ha mai tirata fuori dalla fondina in cuoio, scurito dal tempo, e non ha mai sparato e non mi ha mai ammazzato. La minaccia, invece, è sempre stata presente e con una forza molto maggiore di quel proiettile che, talvolta, mi sembrava di intravedere dalla canna e che, anche da lì, provocava dolore, molto dolore.
Eravamo diventati talmente prevedibili che, ogni cosa facessimo, viaggiava più veloce tra i nostri concorrenti che al nostro interno. E, sospettavo pure che qualcuno facesse il doppiogioco, talmente combaciasse ogni minimo dettaglio.
Zio Milvio si comportava troppo bene con chiunque e tanti ne approfittavano. Non che non lo rispettassero, ma a volte lo trattavano con sufficienza.
Tutti erano convinti che nulla sarebbe cambiato, quando ho cominciato a sostituirlo. Per un po’ è stato così, infatti. Ma prendevo le misure, imparavo, chiedevo, compravo persone e cose. E, quelli, non l’avevano capito.
Quindi, cominciarono i cambi di rotta repentini e drastici che spaesarono i più. Dentro e fuori l’azienda.
Uno, addirittura, scommise la sua Maserati sulla mia prossima mossa, convinto di saperla lunga. Più lunga di me. Vabbe’ che era una Ghibli, ma dovette comunque lasciargli le chiavi, a uno dei nostri storici partner. Quando Paolo mi raccontò della scommessa e della posta in gioco, non riuscii a fermarlo nello stomaco il ghigno di soddisfazione, cattiveria, rabbia. Ma non verso l’avversario. O non solo, almeno.
Mi sono dovuto avvalere di complici, brigare contro il sistema, beffarlo con le sue stesse difese.
Pensare fuori dagli schemi, agire fuori dalle regole.
Ho imparato una grande lezione: la forza del mai. Mai pensare “abbiamo sempre fatto così”, mai mancare di rispetto all’avversario, mai decidere senza aver valutato tutte le mosse, mai pensare di non poter cambiare le cose, mai scommettere se non si è sicuri di vincere.
Spinta da più parti, era entrata in azienda Mara N., la figlia del sindaco. Era un’odiosa e spocchiosa figlia di papà, nemmeno brillante, che catalogava chiunque dai soldi in tasca e le griffe addosso. Prima che l’assumessimo, cercava di guardarmi dall’alto in basso. Bloccavo quei tentativi, sorridendo da stronzo a quegli occhi aperti per metà, sotto una linea pesante di rimmel.
Conosceva Carla e apparteneva al coro che le canticchiava di lasciarmi perdere, ché non ero al suo livello e meritasse di meglio. Ora, alle mie dipendenze, aveva cambiato atteggiamento e io morivo dalla voglia di darle ragione: eravamo a livelli differenti, ma non stavo io in basso, e non per i soldi o lo status, ma perché avevo un’anima, anche se non sempre nobile.
E un giorno le parlai. “Sei la sala di un cinema”, esordii nel mio ufficio. E lei, pensando fossero complimenti, rilassò subito la mascella. Così azzannai, forte, la giugulare:
“Al buio sei luminosa, accesa dai lampi riflessi sulle pareti, vivi del dinamismo e della passione proiettati.”
Ancora si compiaceva, dondolandosi un pochino, così continuai “Ti animi delle risate degli spettatori, soffri con le loro lacrime, ti emozioni nell’intreccio di mani o lingue che si cercano o si sottraggono.”
Cominciò a sospettare qualcosa, così affondai l’ultimo morso “Tutto finto e, a spettacolo finito, sei sola e vuota. Piena di bottigliette smezzate e pop-corn calpestati, colma solo del sudiciume che solo il genere umano sa produrre e lasciarsi dietro.”
Nel silenzio che ne seguì, una linea di sorriso, a compiacersi della crudeltà sputata, mi si stampò sulla faccia e, quindi, attesi che il silenzio annegasse nel suo puntuale, quanto inutile, pianto isterico.