Avrò avuto dieci anni, più o meno. Un giorno, non ricordo perché, sembrò una buona idea non andare a scuola, alle elementari. Eravamo quattro o cinque, imbastimmo una ragione intellettuale e profonda e cambiammo strada. Uno di noi conosceva un posto dove ripiegare, in un giorno caldo e assolato. Spostai i capelli dagli occhi e capitanai tutti. Tutto intorno, era tutto più alto di noi, quando arrivammo. A guardarli dalla macchina, non sembrano così alti i campi di mais, dentro non arrivavamo nemmeno alle pannocchie in cima e rischiavamo di perderci. Riempimmo di pannocchie, col ciuffo marrone, il poco spazio libero dai libri, negli zaini e, per ora di pranzo, ognuno di noi bussò al proprio citofono di casa.
Non so, ancora oggi, come avesse fatto, ma mia mamma già sapeva dell’assenza in classe. Non ho mai smesso di cercare la spia. Le dissi che cercavo la misura della mia libertà, che trovai presto, in una ciabatta che mi raggiunse in corridoio, mentre scappavo.
Tutto questo, oggi sarebbe impossibile.
Il primo giorno di “lavoro nei campi”, il primo furto, il primo marinare la scuola (bigiare, fare schissa, fare fuochino, fare filone, fare sega, bruciare – a seconda della regione). Le pannocchie erano ottime, condite di un romanticismo tenero e furbo.