Una volta mi sono trovato invischiato in un racconto di Carver. Più o meno, insomma. Vivevo da un anno quasi con Alice, o meglio lei abitava a casa mia. Pensavo di essere felice. Incontro il ragazzo che lavora dal mio benzinaio. Ci incrociamo per caso sull’uscio del bar, io per la colazione, lui per un ovetto alla figlia. Mi guarda stranito. Lo invito per il caffè e declina, così gli pago l’ovetto alla figlia. Prima di uscire, però, mi tira per un braccio, mentre ero già piazzato per il caffè al banco. È reticente, ma, al tempo stesso, non riesce ad andarsene. Guarda ovunque, tranne che sulla mia faccia, poi finalmente, come un veterinario di campagna, non senza fatica, gli tiro fuori il vitellino che c’ha in corpo. E mi dice di aver visto Alice con uno. Ma visto non nel senso di vedere, quanto constatare qualcosa di inequivocabile. È imbarazzato che manco se me le avesse fatte lui le corna. E mi tocca quasi consolarlo. Gli dico di rilassarsi che ci siamo già lasciati da un po’. Non so se mi crede, ma ritorna a respirare e parlare normale e se ne va. Mi dimentico del caffè e torno a casa. Impacchetto un bel po’ delle sue cose in tre valigie e, da uno dei nostri corrieri, gliele faccio portare nell’hotel dove mandiamo gli ospiti dell’azienda. Pago per una settimana. Nel frattempo, Riccardo mi cambia le serrature del cancello e della porta. Poi, ho bevuto tanto whisky. E mi sono catapultato in una pagina scritta da Bukowski.