Ero partito per Gent da un giorno. Anche i muri ne erano informati. Lui disse di non saperlo e si presentò a cercarmi. Con una mazza da baseball. Paola, dal desk, provò a balbettare qualcosa, mentre le si sbiancavano le efelidi per la paura, ma non le riuscì di convincerlo. Lui, ormai invasato, roteò la mazza sopra la testa e spaccò il telefono e, con due passi, arrivò alla stampante. Spaccò pure quella. Corse verso il mio ufficio, ma non riuscendo a sfondare la porta, tornò indietro, andando incontro alla vigilanza accorsa, approfittando per rompere un altro paio di cose, giacché si trovava. Vasi fragili e indifesi. Era una rappresentazione teatrale, quella che mise in piedi. Patetici, lui e la sua scenetta. In strada, con il nostro logo come sfondo, mi chiamò e, trovando la segreteria, mi insultò e minacciò. La minaccia più pacifica era “Ti spacco la faccia” e l’ingiuria più gentile “coglione”. Ripeteva, a disco rotto, Whitaker, ma aggiungendo almeno quattro “r”. Pure il gestore telefonico impallidì e mi propose di scappare anziché ascoltare il messaggio.
Non posso dire come, ma ci riappacificammo, senza denunce, e lui pagò tutto. Pure le efelidi sbiancate. In seguito, mi diede appuntamento in una zona malfamata. Pensavo mi avrebbe ucciso e occultato. Invece, era lì il suo ufficio e insistette perché rimanessi a pranzo. Ogni giorno, il suo cuoco va in azienda e gli prepara un menu diverso. Una figata pazzesca: pensavo che solo Mike Bongiorno avesse lo chef personale. Ad oggi, con noi, ha investito più di quanto abbia guadagnato e a Natale, puntuale, mi arriva del Barolo. Mio nonno avrebbe usato tre parole: “Guappo di cartone”. Io non so essere così efficace e sintetico.