Whitaker

A volte, invidio — ma solo un poco — quel dono di trasparenza di certa gente. Quelle persone a metà tra l’essere un comodino ed un cagnolino di peluche (che quello vero pure reagisce). Non li senti parlare, non li senti pensare, non li senti camminare. Hai il sospetto che manco il Padreterno se li chiami, perché li ha semplicemente dimenticati e li lasci vagare inermi e informi sulla faccia della terra. Anche fuori dal pancione materno, continuano a vivere nel loro liquido amniotico e a nutrirsi di fuffa. Bivaccano nel mondo, finché, un giorno, si dimenticheranno di respirare e scompariranno, come le buste biodegradabili. Una vita senza ricevere e senza dare.

Poi, però, rinsavisco e mi dico che non ce la farei: preferisco i pugni in faccia, le spranghe nello stomaco e le pedate nel culo che, con tanto amore, la vita riserva. Sono la moneta di scambio per provare emozioni, gioire, essere fieri di sé e non vergognarsi di rubare un altro filo d’aria con il respiro. E, io lo sono, fiero.

So che il mio modo di essere, e di fare soprattutto, mi porta a non essere simpatico a tutti. Al solo sentire il mio nome, molti storcono il naso e mi odiano e mi maledicono. Il suono “Whitaker” fa l’effetto unghia sulla lavagna o spray urticante. Ma a qualcuno, invece, la bocca sorride, a qualcun altro gli occhi si illuminano. E mi basta. Come dire, servire non è servire.

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