Ah, guarda, ora che l’hai detto, non mi arrabbio più, come per magia. Innanzitutto, io non mi arrabbio, ma mi incazzo. Rende di più l’idea, l’arrabbiatura mi sa di palliativo scemo. E io, che fino ad oggi mi sono sempre incazzato, perché nessuno mai, che m’avesse detto che non occorreva. Devo proprio ringraziarti! Sta a vedere, poi, che le mie emozioni debbano essere dettate da te. Se vi sto inveendo contro, è perché tu, che sei incompetente, e il tuo capo, incompetente, pure lui, ma pure idiota, state blaterando richieste assurde e inaccettabili. Non è che sono pazzo, o forse lo sono anche, ma in questo frangente, è del tutto irrilevante. Dopo la frase inutile di CG, è diventato inutile parlare. Mancano proprio i presupposti basilari, come l’intelligenza (loro), tanto per dirne uno. Quindi, non l’ho fatto. Non ho detto niente di tutto questo, ma l’ho pensato, lasciando il cubicolo dov’eravamo – che chiamano ufficio – in un silenzio imbarazzante e palpabile e, dopo averlo pensato, ho salutato e me ne sono andato, con Carmine che, in qualche modo, mi seguiva scomposto e distrutto. Fuori ho respirato aria fresca e di mare. Pulita, soprattutto. Mi sono goduto la salsedine e il sole. Carmine, di fianco a me, non mi guardava né mi parlava, terrorizzato che avessi bruciato un accordo proficuo. Io stavo bene e sorridevo. Dopo due giorni, CG mi ha mandato l’accordo firmato, con le mie condizioni, senza correzioni, ma, al telefono, mi ha detto che il suo capo, però, non mi riceverà più. Non amo le negoziazioni muscolari, ma non ci sono soldi che tengano, quando so di avere ragione.
Tornavamo da un meeting. Avevo un disagio dentro, non consapevole. Tra una cosa e l’altra, nel bus noleggiato dall’azienda, perché il guru di turno ci aveva detto, con enfasi: “fa team building!”, spunta una bottiglia di spumante. Penso ad un compleanno o alla felice conclusione dell’evento. Invece, quello che tiene la bottiglia, ci chiede di brindare, ma non vuole dirci a cosa. Ha un sorriso falso e cattivo, stampato sul faccione scemo. Resto sorpreso e non mi piace. Mi assale un mutismo selettivo e un odio profondo, verso molte di quelle persone che brindano. Io rifiuto, dicendo che non mi piace quella marca di spumante. In realtà, non mi piacciono loro, ma non so ancora il perché. Anche una mia collega non brinda e non le chiedo il suo, di perché. Ha deciso il mio istinto per me, si è assunto la responsabilità di una decisione, obbligandomi a dire no, con la lingua, la mano ed un movimento della testa. Mi ha guidato e, ancora oggi, lo ringrazio. Il lunedì successivo, alcuni tra loro, annunciano la scissione, ci lasciano in mutande a molti, e di sale a quelli che li avevano sorretti nei festeggiamenti, per farsi poi pugnalare alle spalle. Nella nuova società, assumono gli stessi comportamenti che ci criticavano e per i quali sono andati via. Com’è strana la gente, penso. Allora era l’invidia per non avere il potere, a farli parlare, non gli ideali che sbandieravano, di etica e giustizia. Con alcuni di loro, di tanto in tanto, mi capita di mangiarci insieme, il mio istinto continua a non fidarsi e mi dà pugni nello stomaco. Lo spumante, comunque, era veramente scadente, ma non quanto loro.
Ridevo all’ennesima battuta sguaiata di Augusto, aspettando, che il cancello si aprisse, per entrare. Stella si materializzò, senza che avessimo bussato, e ci indicò la strada. Ci trovammo davanti la facciata di una splendida villa del ‘500, su una delle vie storiche di Roma, la Flaminia, mi pare. Vedemmo la Corvette gialla, la Ferrari blu e la Macan nera. Parcheggiammo lontano, con il disagio da sfigati, addosso. Eppure, avevamo una tedesca, anche se bianca, ma con il blasone sul cofano.
Stavamo entrando in un mondo patinato, sfavillante, lussuoso, di un’opulenza grassa e sconcia, quasi. Nel cda avevamo deciso che io dovessi essere il nostro volto per il video da realizzare, insieme ad Augusto. Rimasi impressionato per la cura maniacale al dettaglio. Per meno di cinque minuti di film, lavorammo quattro ore. Trucco, pennelli, polveri sbattuti in faccia e il regista che interrompeva di continuo: la “o” era da aprire, la “e” da chiudere e viceversa. Quell’inflessione da smussare, il naso da raddrizzare, gli occhi, la bocca fuori sincrono. Ovunque, c’era il pelo nell’uovo. A me sembrava tutto identico e tutto buono, già al primo ciak. Facemmo diverse pause, passeggiando nel parco della villa, per ritrovare – testuali parole – l’armonia tra corpo e mente, rilassarci e concludere. Finalmente, a ora di pranzo, finimmo e Stella insistette affinché restassimo. Ci aspettavamo calici di Franciacorta accompagnare ostriche e caviale. Andammo alla tavola calda di un bar, a noi fu offerto il pranzo, la quindicina di ragazzi della troupe dovette fare ognuno per sé. Scoprimmo che erano loro, quelli a sentirsi sfigati e noi visti patinati e sfavillanti. Ci fecero un sacco di domande sul nostro fantastico mondo della finanza e dell’economia. Va’ a capire di chi fosse la Corvette!
Alla fine, l’ultimo oltraggio, l’ultimo schiaffo l’ha subito da un attacchino che, senza grazia, quasi senza rispetto, le ha spiaccicato sulla foto il pennello intriso di colla, per finire in fretta e andarsene altrove. Vallo a capire dove. E di schiaffi, Filomena, ne prendeva ogni giorno dalla vita, come una bulla che si accanisce sulla più fragile della classe. È stata per me non una mamma — è una parola troppo grossa e va maneggiata con cura, per distribuirla in giro, specie per uno che l’ha perduta da ragazzino — ma una persona speciale, sì. Era una di quelle persone sempre ai margini, nella vita, nella società, nei pensieri della gente, persino, che poi ci si abituano pure, ci ballano persino su quei margini, ma sempre ai margini stanno. L’ho conosciuta che ero già adulto, faceva dei piccoli lavori a cottimo dal mio sarto. Ricuciva l’anima con la stessa naturalezza con cui ti aggiustava l’orlo, senza nemmeno guardare. Ti sagomava lo spirito con la disinvoltura di quando maneggiava il colletto della camicia. Non era colta, ma le sue parole erano colme di insegnamenti, non era ricca, ma regalava molto più di quanto ricevesse. Non era giovane, sana e bella fuori, lo era dentro. Per questo sarà immortale. Non è facile da spiegare, ma provo pena per quel figlio lontano, che non è riuscito a conoscerla.
«Caro P, con tutte le palle che ci stai raccontando, possiamo riempire un bell’albero di Natale!»
Per qualche istante, mi sembrò pure carina come battuta, poi, con gli anni, è subentrata una strana forma di sgomento. E con altri anni che sono seguiti ancora, mi è parso, comunque, un insegnamento. Stavamo in classe, uno di noi era in interrogazione, al cospetto del prof e della lavagna sporca, con dei segni, ma soprattutto con le ombre della lezione di prima e la polvere del gessetto. Effettivamente, quello che diceva P, poco c’entrava con l’interrogazione, con la materia stessa. Allora mettigli impreparato e mandalo al posto, pensavo, puntando sulla questione di metodo, soprattutto quando a sfotterlo fosse il prof, quello che poi avrebbe minato la formazione dei successivi tre anni, per diverse materie. Aveva stabilito, infatti, che il programma fatto l’anno prima da un altro insegnante, non andasse bene e, quindi, ce lo fece rifare, saltando completamente quello dell’anno in corso. Produsse notevoli danni, formativi e comportamentali, mancò di rispetto agli alunni e al suo collega. Per anni sono stato incazzato, ma poi la rabbia è scomparsa. La metti in un angolo, quella, finché un giorno non la trovi più e non sai se l’hai lasciata andare o sia scappata. Mi ha insegnato uno stile di vita, il rispetto dei ruoli, a non annientare, ma proseguire il lavoro dei collaboratori e dei colleghi, correggere ed integrare, semmai. Il rovescio della medaglia è che non lo ha fatto in modo consapevole. Gli è venuta come botta di culo, diciamolo.
E mo’, come glielo spiego a don Michele che il Laphroaig nemmeno mi piace? Sarò un poco snob, ma, tra i whisky, è tra quelli che mi piace meno. Certo, sempre meglio che se m’avesse regalato una grappa, e con un rametto dentro, per giunta, ma il Laphroaig proprio non lo posso bere. Farei un affronto alla signora Macallan. Oltre che al mio palato, of course.
Che sia un po’ in imbarazzo lo si vede, da appena mi si è seduto di fronte. E, soprattutto, da come ci sta seduto, con quella specie di moto perpetuo, come se delle formiche gli stessero facendo il solletico da sotto i pantaloni, e lui cercasse di schiacciarle col sedere, senza farsi sgamare, ma con un po’ di senso di colpa. Lo vedo che cerca di mettere insieme – senza grande successo – un po’ di parole per giustificare la sua presenza nel mio ufficio. Mi deve chiedere un favore per un suo parrocchiano, lo so. Il discorso che sta cercando di fare, me lo raffiguro, nella testa, come quelle lettere anonime, fatte con le parole ritagliate dai giornali e incollate su un foglio, talmente è poco fluido. Però il gesto del regalo, l’essere goffo e in soggezione mi gonfiano il cuore. Certo, nel gonfiarsi, non essendo più abituato, si crea qualche crepa sulla superficie, ma il risultato finale non è male, comunque. E pensare, che prima di trasferirmi a C., quand’ero un bambino, quello stesso prete mi riempiva di scappellotti, alcuni senza motivo. Ho già deciso che l’aiuto, però lo faccio friggere prima un po’. #WhitakerAcademy
Avrò avuto dieci anni, più o meno. Un giorno, non ricordo perché, sembrò una buona idea non andare a scuola, alle elementari. Eravamo quattro o cinque, imbastimmo una ragione intellettuale e profonda e cambiammo strada. Uno di noi conosceva un posto dove ripiegare, in un giorno caldo e assolato. Spostai i capelli dagli occhi e capitanai tutti. Tutto intorno, era tutto più alto di noi, quando arrivammo. A guardarli dalla macchina, non sembrano così alti i campi di mais, dentro non arrivavamo nemmeno alle pannocchie in cima e rischiavamo di perderci. Riempimmo di pannocchie, col ciuffo marrone, il poco spazio libero dai libri, negli zaini e, per ora di pranzo, ognuno di noi bussò al proprio citofono di casa.
Non so, ancora oggi, come avesse fatto, ma mia mamma già sapeva dell’assenza in classe. Non ho mai smesso di cercare la spia. Le dissi che cercavo la misura della mia libertà, che trovai presto, in una ciabatta che mi raggiunse in corridoio, mentre scappavo.
Tutto questo, oggi sarebbe impossibile.
Il primo giorno di “lavoro nei campi”, il primo furto, il primo marinare la scuola (bigiare, fare schissa, fare fuochino, fare filone, fare sega, bruciare – a seconda della regione). Le pannocchie erano ottime, condite di un romanticismo tenero e furbo.
Leggere Ottavio Mirra è fare un tuffo nel mare profondo, come quello di Salvatore, uno dei primissimi personaggi della raccolta “Dal porticato”. Un mare fatto di umanità e parole cristalline, significati limpidi, scene mai volgari, anche quando parla di prostitute e truffe, mai banale e mai scontato nella fluidità della lettura e nei finali.
Le frasi sono asciutte, chiare, arrivano dritte al punto, niente fronzoli, nessun giro di parole. Sono gli strumenti di chi ti dice la verità pensando a te, senza il timore di dover abbassare lo sguardo.
Sembra di entrare nella tua stessa vita, perché i personaggi che si raccontano fanno parte del quotidiano, ne riconosci ad uno ad uno i tratti, somatici e caratteriali, li incontri per strada, sono amici o parenti o conoscenti. I luoghi hanno un’anima, ne senti il respiro e ti influenzano. Le descrizioni sono coinvolgenti, nitide, materializzano persone e posti.
Tra le pieghe delle pagine si nasconde una poesia romantica e per niente sdolcinata, composta con le emozioni, le parole, i sentimenti forti e veri. Non ti arriva solo al cuore ma, in qualche modo, ti resta addosso, si appiccica come una seconda pelle e ti protegge dalle ustioni che provoca la realtà. La scrittura è calma, non urlata, consapevole, quasi, di lasciare un messaggio positivo.
Ci sono quattordici racconti, tutti, nessuno escluso, scandiscono un tempo di riflessione, ognuno rappresenta una scultura. Ti accorgi che ogni singola parola non è soltanto una parola che segue o che ne precede un’altra, è messa lì con uno scopo e solo dopo un pensiero, lungo, laborioso. È scolpita, insomma, per scoprire un’opera d’arte da un blocco di marmo.
Salvatore e Annibale così diversi, ma molto più simili di quanto ci si aspetti. La bellezza di Graziella nei suoi difetti. La forza di Simonetta che interroga San Pietro. Attilio e Sante Travaglio e le loro paure. Potrebbero sembrare i protagonisti dei racconti, ma sono soltanto delle ottime spalle, mentre il vero, unico protagonista altri non è se non il lettore, costretto, suo malgrado, dall’autore ad interpretare i ruoli ed interpretarsi, interrogarsi, a leggere le pagine e a leggere sé stesso. E dopo, resta un solco scavato e da colmare, ma che inorgoglisce e rasserena. E ti accorgi che ne avevi proprio il bisogno!
Ritrovandomi questo libro tra le mani, ho avuto il timore che leggerlo fosse un dovere. Il doverlo leggere per curiosità, trattandosi di un’opera prima, il doverlo leggere perché ammiro la scrittura dell’autore, scoperta casualmente in un reading anni fa, il doverlo leggere per poi scriverne in queste righe.
Ho constatato il piacere, già alla prima pagina, di rallentare il ritmo man mano, per concentrarmi meglio sulle singole scene, sì, ma, soprattutto, per gustarne appieno i profumi, i vapori, i riflessi, come quando riscaldi un ballon tra le mani, guardi il colore, annusi e attendi che le esalazioni ti arrivino al naso, chiudi gli occhi, assaggi e aspetti l’esplosione del cognac che, dalle papille, si diffonda a tutto il corpo.
Da oltre duemila anni, lo scrigno di mirra è un dono che ogni anno, puntuale, arriva. Oggi, questa raccolta di Mirra dona a noi, invece, a ciascuno di noi, la possibilità e la responsabilità di essere migliori. Dire grazie è un piccolo gesto, con un grande effetto per chi lo dice e chi lo riceve e, alla fine del viaggio, si sente il dovere di ringraziare Ottavio per questo grande patrimonio che ci ha regalato.