Whitaker

Il rumore delle nocche sulla porta aperta mi ha fatto fare un piccolo balzo. Lei se n’è accorta e si è scusata, senza averne colpa. Dopo che è uscita, quel “senza averne colpa” è continuato a starmi in testa, inceppato tra i pensieri.

Lavora con noi da quando ci siamo conosciuti in aereo. Lei stava con la figlia, io col terrore di essere infastidito. Dalla mocciosa intendo.

Tornavo da una negoziazione tesa e lei da un colloquio. Entrambi appesi ad altri e non stavamo comodi, in quei panni. Una persona così, non puoi fartela scappare e, alla fine del volo, al bar dell’aeroporto, la assunsi. Poi è cresciuta e ora guida diversi progetti.

Già in aereo mi raccontò di come fosse nata Gioia, la novenne che, sulle nostre chiacchiere, s’era addormentata. Allegra era stata picchiata, stuprata, messa incinta dal suo vicino, ma dopo avergli rotto un vaso tra orecchio e nuca, lo aveva immobilizzato e spedito in galera. Senza neanche il tempo per far albergare dolore e rabbia, seppe di essere incinta. Decise di non abortire, trasformando la sua frustrazione in gioia, da cui il nome della figlia. Con un linguaggio semplice, ma crudo, decisa a non mentirle mai, le ha già spiegato di quanto sia stato diverso il processo, ma quanto più solido e importante sia il risultato, senza farla sentire orfana o diversa. Da quel giorno, inoltre, aiuta le donne senza la sua stessa forza, battaglia nella quale, in azienda, siamo intervenuti a sostenerla.

È forte, serena, sicura, determinata, ma sembra sempre che stia riparando a un danno, senza averne colpa.

Whitaker

Spinta da più parti, era entrata in azienda Mara N., la figlia del sindaco. Era un’odiosa e spocchiosa figlia di papà, nemmeno brillante, che catalogava chiunque dai soldi in tasca e le griffe addosso. Prima che l’assumessimo, cercava di guardarmi dall’alto in basso. Bloccavo quei tentativi, sorridendo da stronzo a quegli occhi aperti per metà, sotto una linea pesante di rimmel.

Conosceva Carla e apparteneva al coro che le canticchiava di lasciarmi perdere, ché non ero al suo livello e meritasse di meglio. Ora, alle mie dipendenze, aveva cambiato atteggiamento e io morivo dalla voglia di darle ragione: eravamo a livelli differenti, ma non stavo io in basso, e non per i soldi o lo status, ma perché avevo un’anima, anche se non sempre nobile.

E un giorno le parlai. “Sei la sala di un cinema”, esordii nel mio ufficio. E lei, pensando fossero complimenti, rilassò subito la mascella. Così azzannai, forte, la giugulare:

“Al buio sei luminosa, accesa dai lampi riflessi sulle pareti, vivi del dinamismo e della passione proiettati.”

Ancora si compiaceva, dondolandosi un pochino, così continuai “Ti animi delle risate degli spettatori, soffri con le loro lacrime, ti emozioni nell’intreccio di mani o lingue che si cercano o si sottraggono.”

Cominciò a sospettare qualcosa, così affondai l’ultimo morso “Tutto finto e, a spettacolo finito, sei sola e vuota. Piena di bottigliette smezzate e pop-corn calpestati, colma solo del sudiciume che solo il genere umano sa produrre e lasciarsi dietro.”

Nel silenzio che ne seguì, una linea di sorriso, a compiacersi della crudeltà sputata, mi si stampò sulla faccia e, quindi, attesi che il silenzio annegasse nel suo puntuale, quanto inutile, pianto isterico.

Whitaker

Stavo con zio Milvio e passeggiavamo giù al porto, era il giorno del mercato settimanale e, più parlavamo, più la salsedine restava attaccata alla faccia e l’affetto a qualcosa dentro.
Mi disturbava quel profumo di mare che, di solito, amavo, ma ora sovrastava quello dell’acqua di colonia di Milvio.
Era diventata una specie di rito, quella passeggiata tra le bancarelle, non compravamo mai niente, ma disperdevamo le nostre chiacchiere tra la gente, consapevoli che non servissero a nessuno se non a noi. Per lo più, parlavamo del mio lavoro e mi chiedeva, premuroso, se potesse fare qualcosa per me. Non era più lo zio Milvio di quand’ero piccolo, quando lo guardavo con ammirazione, ora lo custodivo con rispetto.
Si fermò da Alfredo e cominciò a toccare e provare un cappello. Aveva perso il suo Borsalino, come a giustificarsi, ma non voleva spendere troppo. Tanto non gli sarebbe servito per molto, aggiunse. Ma lo disse come se non volesse intaccare la mia eredità. Lo trascinai lontano, fino dal cappellaio che li confezionava ancora su misura, uno a uno. La vidi come un’incoronazione alla saggezza, grato di avermi guidato.
#WhitakerAcademy
 
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Malevite di Marilena Lucente

Leggi il primo rigo di ogni racconto e comprendi il significato di “incipit”, come dovrebbe essere sempre, per legge.

Poi, vai avanti, ogni parola calibrata, ogni frase sussurrata, ma colpisce forte, prende e porta altrove. All’inizio, come se non capissi o non cogliessi, segui fedelmente i passi lenti e solidi dell’autrice, scendi i gradini con il buio intorno e l’arancio ruggine negli occhi — come in copertina — ti ritrovi giù, a tu per tu con la tua anima, nella tua anima. E tutto diventa chiaro, quindi.

Metti a posto, sistemi, allora, sei costretto a far spazio a quei personaggi che resteranno lì, da ospiti a padroni.

Quella di Marilena Lucente è una scrittura potente e pericolosa.

Potente perché si impone senza alzare la voce, senza panegirici, ma con perfezione stilistica e maturità, fuori dal comune. C’è poesia. Ovunque.

Pericolosa, perché ti avviluppa, ci resti dentro e lei addosso e conquisti dolore e gioia, serenità e rabbia.

E, impotente, corri il rischio di dover leggere per sempre! Impari ad amare anche i personaggi secondari, e quelli scomodi e cattivi. Sette vite in sette racconti, sette vite che si condensano e realizzano in sette attimi eterni. Una lettura imperdibile.

Whitaker

Con il tempo si fanno dei calcoli strani. Io, negli ultimi sei, mi trovo cresciuto di dieci e, nei precedenti dieci, mi sentivo avanzato di quattro.

Matematicamente sono indietro, ma mi sento a credito lo stesso. Sarà l’egocentrismo, penso. E mentre cerco un modo onorevole per uscire da questo pensiero ingarbugliato, sfuso, infruttuoso, A. bussa alla mia porta. In reception, c’è un cliente recente imbestialito. Decido di riceverlo, anche se mi rompe fare incontri improvvisati.

Entra quest’omone, con almeno due chili di riccioli ribelli e le guance paffute e rosse, come i neonati. Non mi dà il tempo di presentarmi che mi sbraita contro tutta la delusione, l’amarezza, la rabbia. Non mi resta che lasciarlo sfogare, anche perché dovrei colpirlo con un dardo per sedarlo e scopro, alla fine, che non è insoddisfatto del prodotto, del servizio, delle persone. No, niente di tutto questo, vuole le coccole, il pacioccone. Essendo partito a razzo, si aspettava che la proprietà andasse da lui, lo riverisse, lo facesse sentire importante, vuole i fiori, insomma.

«Come la capisco, caro E.» gli dico serio e continuo

«Pensi che ho avuto due Jeep e una Alfa, ho comprato una ventina tra iphone, ipad, imac e John Elkann e Tim Cook non mi hanno mai nemmeno chiamato. Per non parlare di quell’ingrato di Jack Daniel: manco gli auguri per Natale mi manda!» Esce salutandomi con un cenno della mano e i riccioli che, piano piano, gli si allungano sulle spalle flosce. Muove un po’ d’aria che mi arriva in faccia. Qualche anno sento di averlo recuperato e sorrido beato.