Trilogia delle donne dell’acqua di Marilena Lucente

È un libro di sentimenti forti e contrapposti, ma mai distanti.

Solo Marilena Lucente poteva realizzare un’opera sulle donne, così difficile per le donne, senza il rischio di deragliare nella demagogia, nell’aria delle parole vuote, dette perché dovute, ma non proprie.

Così la scelta delle protagoniste: non donne semplici, con percorsi lineari, idolatrate magari, dal like facile, per intenderci. Donne, invece, con addosso decisioni definitive, discusse, che hanno fatto scelte determinanti, definitive. Con coraggio e follia.

Leggere questo libro non è leggere l’autrice, che è riuscita a farsi “da parte”, però rimanendo vigile, è parlare direttamente con Medea, Didone, Penelope: sentirle pronunciare parole che fanno male “Le mie parole non gli parlavano più“ …che c’è di peggio? Come si fa a non andare avanti e volerne sapere di più?

È prosa, d’accordo, ma – so di averlo già detto per un altro suo libro – è strapiena di poesia, di quella che ti fa stare bene, quella che dà un senso alla lettura, alla serenità, alla vita.

Ogni racconto, ogni pezzo dell’avventura delle tre donne è un distillato di parole, ognuna al posto giusto, nessuna di troppo, ognuna con un ruolo preciso e un’anima propria. A “Medea è un nome addormentato che abita tutte le donne” …cosa si potrebbe aggiungere se non un applauso?

La scrittura di Marilena Lucente non è mai banale, mai una frase fatta, ti prende per mano e ti porta in giro per le pagine, nelle pagine, senza farti sentire il peso di diventarne dipendente e, per questo, senza lieto fine, perché all’ultima riga hai terminato un viaggio che speravi durasse di più.

Comprare “Trilogia delle donne dell’acqua” non è acquistare un libro, è un biglietto per il Paradiso, con Beatrice come guida. Grazie Marilena!

Whitaker

Zio Milvio è venuto a trovarmi in ufficio. Un’improvvisata. Ne fa, ma non spesso e io, anziché fare gli onori di casa, ho cominciato a lamentarmi di lavorare tanto, troppo, non avere tempo libero a sufficienza. E, intanto, ne stavo rubando un altro po’ a entrambi, invece di godermi il momento. Si alza, apre il mobile dove tengo le bottiglie e, con calma, si versa una generosa porzione di Lagavulin 16 anni, quello che sa un po’ di fumo, come dice lui. Poi, tra lo spazientito e il divertito, mi fa: “Diciamoci la verità: questa è come te la racconti. In realtà non sapresti starci nemmeno un mese, lontano dall’azienda.”

E comincia a ricordarmi di quanto mi gratifichi, diverta, appaghi, renda felice. Di come il lavoro sia ovunque nella mia vita, in ufficio e non.

Certo, capita la giornata no, in cui manderei – dice lui – affanculo il mondo, innocenti inclusi, ma questa è un’altra storia.

Lavorare, e fare questo nello specifico, pompa adrenalina, tiene vigile e svegli. Non è, probabilmente, nemmeno il legame emotivo con i collaboratori, l’azienda, i soci. Ci si può farne a meno, delle persone e delle cose, almeno così ci si convince.

È l’essere un ingranaggio di una delicata catena di montaggio a farmi stare bene, mi spiega. Sapere che senza di me, il sistema si fermi, si inceppi o anche solo rallenti: È magia e incantesimo.

Mi regala un potere, ma soprattutto una gioia, che lo stipendio e gli utili e i benefit non riescono a comprare. E poi c’è la fortuna di incontrare un sacco di gente. Individui capaci, illuminati, caparbi, ma anche incompetenti, quando non dei completi idioti. Brava gente e delinquenti. Truffatori e onesti padri di famiglia. Persone con una dignità solida da sorreggere palazzi e altri con la spina dorsale di formaggio spalmabile. Scaduto.

Da tutti si impara.

“E tu, zio Milvio non smettere di insegnarmi” – ma non l’ho detto, l’ho solo pensato. Non le diciamo mai abbastanza certe cose, però in qualche modo, trovano la strada per arrivare.

#WhitakerAcademy