Mi frullava in testa una trama strana e, per questo, mi intestardii. Una storia difficile, cruda e solo un personaggio forte e interessante poteva assumersene l’onere di realizzarla. Era lì che mi infastidiva, si intrometteva nei pensieri. Dovevo liberarmene.
Casualmente, una sera, lo scoppiettio di un fuoco liberò, dai ricordi assopiti, una donna conosciuta anni prima, la sua voce e i suoi gesti e i suoi sguardi. Poi realizzai di quanto fosse solo una ragazzina. Diversa, però. Scaltra, forbita, ironica, irriverente, a tratti stronza, forse. Determinata, capace e bella, pure. Avevo trovato la mia protagonista. E nacque “Irish”.
Il seguito è finzione della mente, nella realtà delle parole.
Inutile girarci intorno: Pietro non è mai stato una colonna dell’azienda né un manager competente. Lo abbiamo tenuto e mantenuto, solo per far contento zio Milvio, e finché ci costava solo in stipendi, benefit e rimborsi bizzarri e generosi, passi. Ma ormai non si trattava più – solo – di pagare caffè e pasticcini a inutili passacarte e perfetti sconosciuti, faceva danni anche solo aprendo bocca. Può anche darsi che in passato qualcosa di buono l’abbia fatta, ma non se n’è trovata traccia.
Decidiamo, quindi, di collocarlo in ferie, dovrebbe starci molti mesi, per azzerare tutte quelle mai prese: spudoratamente in vacanza da anni!
Risparmiamo i caffè e i danni collaterali, ci consoliamo, dopo aver fatto digerire la cosa anche a zio Milvio, messo di fronte a inequivocabili evidenze. E iniziamo così ad allontanarlo dall’azienda definitivamente, pensiamo.
Comincio quasi a considerarlo un simpatico e nostalgico ricordo, da riderne alle cene goliardiche, quando lo incontro al tavolino del bar, di fianco al mio sarto. È lampante l’imbarazzo, sottolineato dalle guance, dello stesso rosso della cravatta. Per il resto, ha il suo abito blu migliore e l’inseparabile agenda, che ho sempre immaginato con i fogli intonsi. Quel nome dorato, in rilievo sul cuoio, l’ho sempre trovato di cattivo gusto e fuori moda, ma non gliel’ho mai detto.
Mi confida, a questo punto, di non aver comunicato le ferie in famiglia e così esce di casa ogni mattina regolarmente, come fatto negli ultimi trent’anni, manco dovesse salvarci dal fallimento. «Sai – continua – loro mi attribuiscono un ruolo decisamente superiore.»
“Chissà chi glielo abbia fatto percepire” penso, ma taccio, saggio sì, ma spossato da questa situazione incancrenita.
Tempo qualche giorno e scopriamo di come abbia portato avanti alcuni affari durante le ferie, per attaccamento all’azienda, ha sbottato lui, ma costruendo parallelamente altri problemi e sempre più grossi.
E niente, alcuni sono proprio infestanti e deleteri come la gramigna, ma si danno le arie dell’aloe vera.
“Alba, nella notte” nasce in un ufficio spoglio e brutto. Un collega, quando poteva, mi raccontava frammenti della sua vita, come fossero trailer:
un sabato, dopo il lavoro, corse a Montecarlo, per sesso e champagne,
era volontario presso un centro di sostegno psicologico, gli serviva per l’università.
due sue amiche avevano acquistato loro stesse e operavano in proprio, ormai, come prostitute. E qui mi sono incagliato: Alba, come la nascita di un giorno nuovo e la canzone di #vascorossi. E sì, lui somiglia a Fabio!
Il seguito è finzione della mente, nella realtà delle parole.
Ogni racconto ha una sua vita e una sua storia. “Tre sassi soli nel deserto” nasce in una notte d’inverno, in un sogno, in cui la prima scena è una stanza un po’ annebbiata con il protagonista triste e muto. Arriva lei e si presenta “Sono Giulia, Giulia Ostero”. Il nome di lui non è importante, invece. Il protagonista sente l’alito di lei sulla guancia. Poco dopo tutto sfuma nel frastuono di una sveglia invadente. Il seguito è finzione della mente, con la realtà delle parole.#whitakeracademy #michelepalmieri#conlaportaaperta
“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera è soltanto uno strumento ottico per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso” Marcel Proust
Sulle cose lascio correre, è il mio modo di fingermi asceta. Di solito. Poi se mi impunto, beh, è diverso: ci provo proprio gusto a fare il cagacazzi.
A cinque giorni da una disavventura dal meccanico, ci sono dovuto tornare per il tagliando. La volta prima, quella della disavventura, non gli ho cantato le classiche quattro, ho fatto proprio un miniconcerto live. E, uscendo, ho fatto pure gli occhi torvi, come nella migliore tradizione dei rocchettari maledetti.
Non sapevo che aspettarmi, quindi, ma sapevo che si sarebbero ricordati. Comunque, lascio la macchina e salgo sul taxi per andare in ufficio.
Quando torno a riprendermela, all’accettazione, corrono furtivi gli occhietti di Giada, riparando in quelli di Augusto, l’addetto alla riconsegna. Non riesco nemmeno a salutare e non capisco. In verità, mi agita un po’ la cosa, ma dissimulo, da stronzo consumato.
Qualche secondo e sento la basculante alzarsi, mi affaccio e vedo il muso cattivo e stupendo della mia macchina. Cesare, il titolare, scende molleggiando tanto è contento, come un bambino che ha vinto ai videogiochi, e non riesce a frenare le parole:
«Dotto’, l’ho provata personalmente e per farmi perdonare, l’ho fatta pure lavare!»
Effettivamente, pare illuminata, brilla che nemmeno nuova era così. Lo ringrazio pure io molleggiando e ridendo, sodale, manco me la stesse regalando l’auto.
E nel finale mi dà il pass vip che agguanto al volo: «La prossima volta si rivolga a me, Augusto è meno affidabile.»
Non gli dico che non avrebbe dovuto, che era tutto a posto, le solite smancerie, insomma. Non c’è niente da fare, il muso duro, le parole grosse, la faccia tosta – mia e sua – a volte pagano.
Però l’ho perdonato e apprezzato. Ha recuperato un torto senza ipocrisia e senza servilismo, con l’arte del saper vivere.