Un po’ di anni fa ho conosciuto un manager, simpatico, gentile, corretto, garbato, competente. Una bella persona, insomma. Abbiamo ideato, concluso e siamo stati spalla, a vicenda, in diverse operazioni di successo. Eravamo stati presentati da un amico comune.
Avevamo opinioni diverse, si vedeva, a volta addirittura contrapposte, ma il rispetto per l’altro ci faceva convergere, comunque, su posizioni di dialogo, confronto, senza mai perdere l’educazione e la stima. E poi, c’erano le idee: quelle spesso confluivano nel medesimo incubatore, e ci legavano.
Mi piaceva talmente la sua compagnia che, una volta terminate le nostre frequentazioni professionali, ho voluto portarlo nella mia vita privata.
Ho incontrato un’altra persona. Rozza, attaccabrighe, volgare e senza quell’ironia e autoironia, che l’avevano contraddistinta e tipiche delle persone intelligenti e brillanti. Pronunciava parole intrise di insulti e supponenza, colme dello stesso odio che tanto odiava nei suoi avversari, non più persone ormai, in una lunga e triste battaglia col mondo.
Era il nodo della cravatta, quindi, a tenerne legata la vera, insulsa personalità, ne ho dovuto dedurre. Dismessa quella e infilatosi in una polo diventava un altro. O solo sé stesso.
L’ho allontanato dal mio presente, ma non dai miei ricordi. Ne conservo geloso i consigli, gli sproni, le storie. Una volta mi disse del suo amico divenuto Presidente, a cui cominciò, da quel giorno, a dargli del lei. L’amicizia resta, ma era per il rispetto della carica, mi spiegò. Non colsi appieno, allora, lo capisco oggi, invece.
Le risate uscivano rumorose dall’ufficio, dove entrava sempre un raggio di sole, quando ci incontravamo. È per questo che voglio ricordarlo, altrimenti il tempo passato insieme, sarebbe stato solo tempo perso.