È Natale da fine ottobre. Le lucette si accendono sempre prima, mentre le persone sono sempre più intermittenti. Io vorrei un dicembre a luci spente e le persone accese. (cit. Charles Bukowski)
Io e G. non siamo diventati amici. Per certi versi siamo stati di più. Quando l’ho conosciuto, io poco più di un ragazzo, lui poco sotto i sessanta, ha cominciato a farmi un sacco di domande, un vero e proprio terzo grado: da dove venissi, chi fossero i miei parenti, perché avessi quel nome e come si incastrasse comunque con le mie origini e cittadinanza. Poi, mi ha insegnato un mondo e tutte le cose che potesse contenere. I modi potevano sembrare bruschi, ma era solo perché ne aveva passate tante, da quando a sei anni fu costretto a cominciare a lavorare, fino all’ultima fregatura della vita che gli aveva tolto quasi in contemporanea moglie e fratello. E prima c’era stata la penultima fregatura, da un suo amico, perché degli amici ci si deve fidare, mi disse e quindi lui si era fidato, proponendogli un affare da fare insieme. E me ne aveva parlato commosso, senza che sapessi cosa ribattere. L’affare, anni dopo, si era rivelato proprio grosso, di quelli che ti fanno svoltare e lui aveva visto giusto. E pure l’amico, però, che approfittando della soffiata, l’aveva poi fatto senza soci, lasciandolo solo con l’amarezza non dei soldi non guadagnati, ma della delusione. E nonostante questo, ancora si fidava delle persone, dandomi l’onore della sua fiducia. E io di lui, ovvio, ma a me veniva facile.
L’ultima volta che l’ho sentito eravamo al telefono: stava andando in clinica per un’operazione che non sospettavo nemmeno e non sapeva se ce l’avrebbe fatta. Voleva salutarmi. Gli augurai il meglio e gli chiesi di farmi sapere appena sarebbe uscito che sarei andato a fargli visita. Dopo qualche giorno, ricevetti un messaggio. Quando vidi il nome sullo smartphone fui contentissimo, con gli occhi che mi brillavano di gioia. Era invece un messaggio della famiglia che mi comunicava che G. non ce l’aveva fatta, ma ci teneva che sapessi. Divenne buio nella stanza con gli occhi che continuavo a brillare, ma le lacrime erano molto amare.
Elon Musk, acquista Twitter, entra con un lavandino in mano e 5 minuti dopo licenzia 5 top manager (tra cui il CEO, scortato fuori dalla sicurezza). Nella foto è nella hall con i dipendenti. Scopriranno che il 25% sarà licenziato entro novembre (ha chiesto ai manager di stilare un elenco dei dipendenti da tagliare in tempi rapidi, in particolare vendite e ingegneri).
A chi gli ha chiesto per quanto tempo intendesse restare amministratore delegato della società, ha risposto
«Il mio titolo è Chief Twit. Non ho idea di chi sia il Ceo»
C’è chi gli dà del ciarlatano, dell’imbonitore, chi del genio, del visionario. Si può non concordare con il suo approccio al business, ma non si può prescindere dalla storia personale per analizzarne il comportamento.
Quando esce da Paypal (di cui è stato cofondatore), incassa circa 180 milioni di dollari. Decide di puntare tutto, non metà, non 179 milioni, ma proprio tutto sulle sue intuizioni (Space X, Tesla, Solar Roof, The Boring Company, Neuralink, OpenAI, Hyperloop). O vince o perde, senza mezze misure.
È per questo che gli investitori gli credono. Spendono per acquistare “aria mista a chiacchiere”, senza vedere un $ di utili, 0 di dividendi. E i consumatori acquistano auto che ancora non esistono.
Musk vale molto più del suo prodotto.
Dall’esterno sembra un modo di fare affari pericoloso, spietato, subdolo (vedi Bitcoin e la trattativa stessa di Twitter). Forse è uno che vive altrove nel futuro e per questo calpesta chi gli sta intorno nel presente: perché non se ne accorge, lì lui c’è stato vent’anni prima e non c’era nessuno.
Musk rappresenta un modo di essere capo completamente diverso e fuori dai dettami e dagli schemi attuali, ma ha indiscutibilmente la stoffa del leader.
Vedo la gente e la faccio scorrere, cercando di dimenticare, sperando di dimenticare. Poi cerco di guardare le persone, per farle rimanere. Difficile trovarle nella gente, di solito le persone stanno per cazzi loro, ma non per carattere schivo, perché si bastano. Devi uscire dalla gente per trovare le persone, un po’ come andare per funghi, devi essere esperto, paziente, determinato, sicuro, sapere dove andare, quando andare, quando e quanto fermarti, quando scappare. Molti cercano di essere persone, fanno come le persone, sembrano persone, ma a guardare bene si rivelano gente, però isolate, perché manco la gente le ha volute. Ho incontrato un bel po’ di gente, ma sono sempre contento quando incontro una persona,
dall’alto della sua fama di uomo di mondo, Le chiedo un’informazione: mi può indicare le pizzerie che propongono la pizza a 4€ non in Burkina Faso?
Sa, è da anni che non pago una pizza 4€, a meno che non sia da asporto e una semplice margherita/bianca (e anche qui sarebbe da vedere, nel 2022).
Delle tre, una è corretta: o con il suo yatch del tempo ha risalito la foce del Volturno ed è attraccato nella Triflisco (Ce) del 2003 o non ha verificato quello che dice o il suo intento è realizzare una campagna trash.
Se come dice, e non ho motivo di dubitarne, è un genio del marketing (e gli altri no), un novello Philip Kotler e Seth Godin fusi insieme, perché non inventa delle campagne marketing altrettanto a costo zero, senza bisogno di sfruttare la visibilità mediatica di altri?
Perché il suo locale, che fieramente dice che pizzeria non è, ha bisogno di paragonarlo a un “entry level” della somministrazione come le pizzerie? È come se Ferrari facesse una pubblicità comparativa con Dacia (con tutto il rispetto).
Che non le piaccia la pizza napoletana o preferisca quella salernitana e romana, ci sta, figuriamoci, sono gusti. Anche a me “non mi piace la salsa con i semi e le pellecchie” (cit. Massimo Troisi), ma non vado in giro a sputtanare i produttori di sughi pronti.
È sicuro che per il suo menu abbia applicato un food cost corretto e nelle trattative con i fornitori abbia il peso negoziale adeguato? Qualche dubbio ce l’ho. Caso mai possiamo guardarci insieme!
Sto in silenzio, a volte, ma il silenzio non è mancanza di argomenti: è ascolto, è interesse. O è indifferenza. Comunque, una dimensione cercata, un’espressione voluta.
Agli stolti può sembrare mancanza di argomenti, ma non è questo il caso.
La prima volta l’ho ascoltato – in silenzio – con interesse, perché me ne avevano parlato benissimo e tendo a fidarmi delle persone che stimo. Avevamo, finalmente, il nuovo direttore marketing, arrivato con squilli di trombe, rulli di tamburi, fanfare, tappeti rossi. Mancavano i nani e le ballerine, ma sottotraccia il pagliaccio c’era, ero io a non saperlo ancora. Aveva il nome simile a un vescovo, l’aspetto del cardinale, il carattere di quei baroni all’università, che dopo un po’ sanno solo di stantio e sopruso. Vuoto nel profondo, fumo negli occhi, bile nel fegato.
Il primo giorno che ci incontrammo mi chiese di andare a cena insieme, accettai con entusiasmo, pur se mi costò annullare dei programmi precedenti. Andammo al giapponese e mi fregò con tutte le scarpe. Non per il menu, ovvio. Avemmo un proficuo dialogo sullo stato dell’arte, sui progetti in corso, sulle strategie, soprattutto, che sono quelle che mi appassionano di più. Ci lasciammo andare anche a un discreto gossip, ma giusto per qualche risata senza cattiveria. Ero convinto avessimo trovato la persona giusta, più concreto e produttivo del predecessore, bravissimo e serio, ma poco incisivo.
Alla seconda riunione, cominciarono a venire fuori l’anima e la natura del personaggio: era tutto infarcito di autoreferenzialità, anche laddove non necessaria, tutto un susseguirsi, di “questo l’ho inventato io”, “questo l’ho fatto io”, “questo me lo hanno copiato”, “c’era uno sfacelo, figa, fortuna che sono arrivato”.
Gli squilli sono presto diventati stridii e non ha prodotto nulla di buono o di diverso da quanto venisse fatto già: aria fritta, ma in un pack più costoso. Crede di essersi rintanato nel suo angolino di paradiso, ma io l’ho abbandonato. È riuscito a vendere ottimamente il suo ego, ma vale sempre e comunque poco. Prezzo e valore sono due concetti diversi.
Finalmente, un film italiano che valga la pena di essere visto, dopo tanto, troppo tempo.
La regia è di Alessandro Gassmann, dopo averne già presentata una versione a teatro, un successo. È tratto da un testo di Maurizio De Giovanni.
Il teatro si vede e si sente tutto. E menomale. Belle la fotografia e l’interpretazione, profondi i significati della casa, degli ologrammi, dei rapporti familiari. Fondamentali i silenzi e i segnali e le poche parole che li rivelano.
Valerio: “I libri vanno ordinati per omogeneità emotiva”, Bettina: “Io invece li ordinerei per colore: nero, grigio, azzurro, verde, marrone, rosso, rosa. In ordine degradante, così ti addormenti prima di averli aperti”. www.palmierimichele.it
Quella che cresce non è la parte buona dell’economia, è solo inflazione, ma ci viene presentato in pompa magna questo segno più e non mi piace, lo trovo poco attinente alla realtà.
Dobbiamo abituarci a leggere i dati anche a volume e per mix assortimento. Così sembra un paese in crescita con un’economia in buona salute. Il dato reale a volumi denota un poco rassicurante segno meno (-0,4% a maggio) con evidenti incertezze per i mesi a venire: quel +8,71% in area 4 (ma vale anche per le altre 3) è frutto, per esempio, di cambio canale da parte del consumatore, cambio preferenze, aumento dei prezzi, acquisto speculativo per volantini, anticipo/posticipo vacanze, ondata di caldo? Messo così è solo un numero che, solo casualmente è positivo, ma parla poco e male.
Probabilmente, dovremo essere pronti ad affrontare nuovi assetti in GDO, con nuove polarizzazioni e nuove strategie. www.palmierimichele.it
Non ho mai avuto un bel rapporto con la scuola. Poi, in qualche modo, abbiamo fatto la pace, ma devo ringraziare zio Milvio se non sono finito a fare truffe o spacciare per campare. E tutto quello che so di importante, è merito suo: la facoltà di economia ti insegna tante cose, ma per impararle e farle tue veramente devi avere un buon maestro. A giustificazione per la mia condotta potrei giocare facilmente la carta della morte di mamma, ma non penso sia quello il vero motivo. Ero uno stronzo già da prima e se non l’avesse uccisa quel Daily sgangherato, probabilmente l’avrebbe fatto il dolore che le avrei causato con una delle mille mie cazzate, cresciute di portata al passo con l’età.
Prima di uscire l’ultima volta per andare allo studio notarile dove lavorava, si era affacciata in camera e mi aveva sussurrato amorevolmente, sembrando di non farla sembrare un’implorazione “Io vado, fai il bravo” a cui seguì un “sì” d’ordinanza. Sapevamo entrambi che ci sarebbe voluto ben altro, però cercavamo di farlo bastare.
Non ce l’avevo con lei, naturalmente, e in fondo nemmeno con mio padre – con lui ho cominciato ad avercela dopo – ma era come se avessi avuto bisogno di trovare sempre nuovi limiti, spingermi sempre oltre, trovare il mio punto di rottura, senza sapere che qualora l’avessi trovato, sarebbe stato impossibile tornare indietro.
Così, pensando fosse un giorno come gli altri, non andai a scuola e con due complici, andammo a rubare due galline e un’anatra che rivendemmo nel paese vicino. Comprammo le nostre prime birre più qualcosa da mangiare e delle figurine di calciatori. Viaggiavo sulle rotte di una bellissima giornata, per questa nuova iniziazione, per questa nuova sfida, per non essere andato a scuola, per l’adrenalina e il sapore di birra che giravano in corpo. È durato qualche ora, fin quando non ho imparato a mie spese di dover sempre aspettare i titoli di coda prima di uscire dalla sala. O dalla vita. E quelle figurine mi ricordano ancora oggi un giorno da dimenticare, come le preci.