Cominciò a girare voce che volessi dimettermi dal cda, pur non vendendo la mia quota. Voci che correvano più di altre, altre che rallentavano per poi incontrarsi, creandone di nuove. In azienda, svoltavi l’angolo convinto di trovarci solo la pianta di sempre e invece, a tenergli compagnia, c’erano pure due a confabulare, mimetizzati tra le foglie. Il distributore automatico sembrava rotto, tanto il ronzio del parlottio delle coppie che si alternavano di continuo. E allora, decidevi di prendere un caffè al bar vicino ma, nascosti dietro dei bicchieri, ce n’erano altri due che arrossivano vedendoti. C’è il pudore della discrezione quando si fa taglia e cuci delle voci: sempre a due a due, come fosse un rito sacro.
In pubblico non mi si chiedeva niente, ma in privato era un turbinio di domande e offerte. Alcune sincere. Tutte le altre, sincere uguali per carità, si preoccupavano per me, mi chiedevano la fondatezza delle voci e se potessero fare qualcosa. Che tenere queste stelline del firmamento. Restavo dolcemente sorpreso, salvo poi scoprire, indagando meglio, che erano sensibilmente meno uguali, così saltava fuori il vero motivo dell’interesse: il mio posto. E ancora di più la mia rappresentanza nel consiglio di amministrazione, visto che non mollavo il malloppo di azioni.
Conservo sempre bei ricordi delle mie aziende, anche quando non sono più mie, proprio perché evito che diventino luoghi tossici, intestardendomi a restare oltre il dovuto.
Da quelle parole, da quei comportamenti mi resi conto che le persone fossero poche, innumerevoli i personaggi, invece. Ovviamente, le voci erano fondate, perché partite da me, ma diffuse da chi avrebbe dovuto tacere. Decisi di vendere anche le azioni, quindi. Nel lungo discorso di saluto, fatto di molte frasi stucchevoli e superflue, della più classica circostanza, non potei fare a meno di rimarcare come nelle fusioni e nelle acquisizioni io sceglievo. Sempre. Gli altri venivano comprati. Sempre. Come nella vita, forse.
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