Whitaker – #shortstory n.75

Andavo da G.d.A. una o due volte l’anno, circa. Facevamo affari insieme, ma non ne parlavamo mai. Quelli poi li lasciavamo a Graziano e Giuseppe, i nostri rispettivi collaboratori. Ne conservo una stima enorme, anche se non ci vediamo quasi più. A stare di fronte a certe persone, capisci cosa voglia dire rispetto, confronto, fiducia, amicizia. Può sembrare strano in un contesto lavorativo. Ma per me è fondamentale. Faceva fatica ad adattarsi ai cambiamenti, specie quelli repentini e improvvisi, ma necessari. Accoglieva il futuro con una linea di malinconia, però poi ci entrava e cercava di starci comodo. Lo salutavo sempre con una battuta, una risata e una stretta di mano sincera, a ringraziarlo del tempo che mi aveva dedicato e del suo insegnamento non imposto. Avrà avuto trent’anni più di me, ma non sentivo la differenza, se non per il baffo bianco e retrò.

Un giorno mi chiese un appuntamento fuori programma: accettai senza esitare e con un po’ d’ansia, per la verità. Mi aspettava sorridente nel parcheggio, quando arrivai, passeggiammo un po’ fuori l’ufficio e mi spiegò la novità: passava il testimone dell’azienda. Al figlio. Alessio, fino a quel momento si era divertito, era diventato maestro di salsa e bachata, ma ora era tempo che lasciasse i passi di danza per quelli nell’impresa di famiglia. Il signor G. aveva perso quella malinconia di fondo per far spazio a una gioia piena, orgoglioso che suo figlio fosse disposto a succedergli.

Il cambio di generazione era una magia che avveniva davanti i miei occhi e io ero felice di farne parte.

L’eredità non sono soldi o beni, che aumentano, diminuiscono, si sgretolano, cambiano i gusti.

La vera eredità è passare il testimone della vita con gioia, fierezza, onore: lasciarne traccia, insomma.

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Whitaker – #shortstory n.74

L’unico vantaggio della morte prematura è che ferma il tempo. Quando è morta mia mamma è stato un dramma, uno strazio anche se non ne cogliessi appieno la portata. A dodici anni hai una visione veramente semplificata del mondo, i cui confini coincidono con quelli infinitesimali del tuo. Non esiste altro e te ne fotti degli altri, persino di lei, tua madre, che è lì distesa immobile in quella chiesa, che puzza di incenso e di gente.

L’unico cazzo di guaio in quel momento è che lei non ti sarà più di aiuto, supporto, risorsa e soluzione per tutto il tuo esistere.

Oggi non riesco a immaginarmela diversa da com’era l’ultimo giorno che l’ho vista. Sarebbe ingrassata? Avrebbe tinto il bianco dei capelli? Quali sarebbero ora i segni della vita: rughe o cicatrici? Avrebbe lasciato mio padre? Lui, così diverso da lei, o dal ricordo che ne ho.

Semplicemente, lei non è anziana: continua a essere la gnocca quarantenne con l’aria furba da liceale. Sono io quello più adulto, quello più vecchio.

In fondo, devo sbattere il muso contro la triste verità di quanto poco la conoscessi e quel che mi è rimasto di lei è attraverso il riflettore sbilenco di un moccioso. E mi ostino a pensarla al presente come fosse viva e come se non fosse una semisconosciuta. Ho vissuto meno di un terzo della mia vita con lei, compresi gli anni inconsapevoli e impalpabili da poppante. Ad alcuni collaboratori e conoscenti ho dedicato decisamente molto più tempo.

Poi mi ricordo di una parola strana, prima si forma nella testa, ma appena dopo ne esce e si materializza sulla libreria di fronte, con le lettere che cominciano a ballare, a dimenarsi, pazze. Si sbracciano per farsi vedere. Sono talmente scalmanate nei movimenti che non riesco a leggerle nell’insieme, ma devo comporre la parola con lo spelling per coglierne il significato: Imprinting.

Boh, sarà quello, forse.

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La vita gioca con me – David Grossman

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È il mio primo libro letto di questo autore. Di Grossman ne avevo solo sentito parlare, ma senza mai conoscerlo sul serio. E ho voluto rimediare.

“La vita gioca con me” è ispirato a una storia vera, ma non biografico e penso basti una sola parola a descriverlo: straordinario. Racconta sottovoce, con uno stile unico e una forza particolare. Parla di famiglia, relazioni, legami a volte slegati, intrecci, guerre, angherie e soprusi nei gulag. Ed è fatto di viaggi. Prima nei personaggi, poi nei territori impervi della ex Jugoslavia. Infine, dentro di sé, lasciandoti inebriato, ma solo, per come possono essere certe storie.

Non sapevo che Grossman fosse nato a Gerusalemme, l’ho scoperto in seguito in quarta di copertina, tenendo il libro tra le mani, e, istantaneamente, il mio pensiero è andato a Amos Oz, un altro mostro di bravura. Non può essere un caso: la scrittura israeliana ha un inchiostro potente, irresistibile. E cogli la differenza tra scrittore e autore, forse.

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Whitaker – #Shortstory n.73

Cominciò a girare voce che volessi dimettermi dal cda, pur non vendendo la mia quota. Voci che correvano più di altre, altre che rallentavano per poi incontrarsi, creandone di nuove. In azienda, svoltavi l’angolo convinto di trovarci solo la pianta di sempre e invece, a tenergli compagnia, c’erano pure due a confabulare, mimetizzati tra le foglie. Il distributore automatico sembrava rotto, tanto il ronzio del parlottio delle coppie che si alternavano di continuo. E allora, decidevi di prendere un caffè al bar vicino ma, nascosti dietro dei bicchieri, ce n’erano altri due che arrossivano vedendoti. C’è il pudore della discrezione quando si fa taglia e cuci delle voci: sempre a due a due, come fosse un rito sacro.

In pubblico non mi si chiedeva niente, ma in privato era un turbinio di domande e offerte. Alcune sincere. Tutte le altre, sincere uguali per carità, si preoccupavano per me, mi chiedevano la fondatezza delle voci e se potessero fare qualcosa. Che tenere queste stelline del firmamento. Restavo dolcemente sorpreso, salvo poi scoprire, indagando meglio, che erano sensibilmente meno uguali, così saltava fuori il vero motivo dell’interesse: il mio posto. E ancora di più la mia rappresentanza nel consiglio di amministrazione, visto che non mollavo il malloppo di azioni.

Conservo sempre bei ricordi delle mie aziende, anche quando non sono più mie, proprio perché evito che diventino luoghi tossici, intestardendomi a restare oltre il dovuto.

Da quelle parole, da quei comportamenti mi resi conto che le persone fossero poche, innumerevoli i personaggi, invece. Ovviamente, le voci erano fondate, perché partite da me, ma diffuse da chi avrebbe dovuto tacere. Decisi di vendere anche le azioni, quindi. Nel lungo discorso di saluto, fatto di molte frasi stucchevoli e superflue, della più classica circostanza, non potei fare a meno di rimarcare come nelle fusioni e nelle acquisizioni io sceglievo. Sempre. Gli altri venivano comprati. Sempre. Come nella vita, forse.

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Whitaker – #shortstory n.72

Le amiche di mamma mi facevano sempre domande, tante e sempre uguali. Tornando dalla scuola calcio, spesso le trovavo sul divano a parlare e a bere caffè. Io, decenne, mi imbarazzavo per quelle attenzioni e arrossivo sotto il sudore della partita. Una mi piaceva tanto, era bionda, ma era tinta. Io non lo sapevo ancora che non fosse bionda naturale, ma mi sarebbe piaciuta lo stesso pure se lo avessi saputo. Aveva sempre le unghie e le labbra spalmate di smalto e rossetto vistosi. A mio padre invece, era antipatica, ma credo mentisse e piacesse pure a lui. Lei non domandava, ma passandole vicino, mi tirava a sé per piazzarmi un bacio forte sulla guancia. Avrei voluto morire dalla vergogna, perché sentivo di puzzare come un animale. E come un bambino. Però, con i mesi che andavano, le passavo vicino sempre più spesso.

«Allora, ce l’hai la fidanzata?» era la domanda che, in assoluto, odiavo di più, la più ricorrente, tra l’altro. Poi una volta, mamma raccontò loro del colloquio scolastico, da cui emerse su tutto “si impegna con costanza”, citando la maestra. La bionda, mi strinse il braccio ai fianchi e, come volesse sussurrarlo – ma facendo sentire a tutte – mi disse «Albert e ora vogliamo sapere tutto di questa Costanza.» sigillando col solito bacio rumoroso, pulendo subito con il dito perché, aggiunse, altrimenti Costanza si sarebbe ingelosita. Sulle prime non colsi il gioco di parole, poi cercai di controbattere, ma non uscirono frasi, solo imbarazzi paonazzi e impacciati. Tutte erano divertite, però da lì in avanti, domandavano sempre meno, passando, maggiormente, a scherzare su come – e soprattutto cosa – studiassi con Costanza, quasi a trattarmi non più da moccioso, ma uno di loro, un adulto. Per caso, così, un risultato passò, con l’imbarazzo che sfumava, via via, un po’ di più.

Il giorno del funerale di mamma, la bionda venne, si abbassò alla mia altezza e mi baciò. Il rossetto rimase attaccato alla guancia, ne sentivo la consistenza. Poi mi strinse forte, tenendo il viso premuto al mio e un po’ di rossetto si trasferì dalla mia alla sua faccia. Sentii un calore strano che tenni stretto, senza dirlo a nessuno.

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Whitaker n.71

Ci invitano a teatro. Andiamo in quattro, senza sapere nemmeno il titolo, figuriamoci trama, attori, compagnia. Di solito, declinerei, ma la causa è nobile: l’intero incasso sarà devoluto in beneficenza, per cui, senza porre domande, entro nello smoking ed esco fiero di casa. Assistere alla rappresentazione di una compagnia amatoriale mi mette curiosità e gioia. In teatro, nel ritardo in cui siamo confinati, sento nel parlottio, che l’opera è una tragedia e gli attori hanno provato per mesi. Non resta che gustarmi lo spettacolo, quindi, fa niente che mi stiano rubando sonno.

Alle prime scene mi scappa da ridere, ma dovrei essere travolto da suspense e pathos. Qualcosa non va e cerco di controllarmi, senza girarmi di fianco.

Mi piace molto il teatro, mi appassionano i tempi, l’aria pulita che si respira, i messaggi profondi che arano terreni generosi. E rispetto molto il lavoro, il lavoro di tutti, però è importante che l’aspetto amatoriale non vada a confondersi con il dilettantismo. Qui ci troviamo di fronte a ruoli raffazzonati, trama scadente e prevedibile, interpretazioni di bambini al saggio dell’oratorio. Tra il primo e secondo atto scopro che non c’è stato studio, impegno, sudore, solo tempo, a questo punto, perso.

Finalmente, arriva il finale. Una specie di babbo natale fuori servizio e fuori taglia sta per ammazzare la bella dell’opera. Si gira verso il pubblico, mi guarda negli occhi e con una pistola dei fumetti spara due volte, muovendo la mano come agitasse un frustino che non avrebbe centrato l’obiettivo nemmeno se il cuore si fosse suicidato, andando incontro ai proiettili. Io scoppio in una risata che a stento reprimo nelle mani portate alla faccia, dopo non essere riuscito a trattenerla nelle viscere. Da fuori potrebbero sembrare singhiozzi sconvolti per la fine cruenta e triste. Ma io ci tengo a puntualizzare la motivazione vera: l’evento è stato solo farsa e qualunquismo, senza arte, passione, bravura. L’unica speranza è che il ricavato possa servire a qualcosa di buono. Esco stranito e senza applaudire, con un senso di incompiuto.

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