Spinta da più parti, era entrata in azienda Mara N., la figlia del sindaco. Era un’odiosa e spocchiosa figlia di papà, nemmeno brillante, che catalogava chiunque dai soldi in tasca e le griffe addosso. Prima che l’assumessimo, cercava di guardarmi dall’alto in basso. Bloccavo quei tentativi, sorridendo da stronzo a quegli occhi aperti per metà, sotto una linea pesante di rimmel.
Conosceva Carla e apparteneva al coro che le canticchiava di lasciarmi perdere, ché non ero al suo livello e meritasse di meglio. Ora, alle mie dipendenze, aveva cambiato atteggiamento e io morivo dalla voglia di darle ragione: eravamo a livelli differenti, ma non stavo io in basso, e non per i soldi o lo status, ma perché avevo un’anima, anche se non sempre nobile.
E un giorno le parlai. “Sei la sala di un cinema”, esordii nel mio ufficio. E lei, pensando fossero complimenti, rilassò subito la mascella. Così azzannai, forte, la giugulare:
“Al buio sei luminosa, accesa dai lampi riflessi sulle pareti, vivi del dinamismo e della passione proiettati.”
Ancora si compiaceva, dondolandosi un pochino, così continuai “Ti animi delle risate degli spettatori, soffri con le loro lacrime, ti emozioni nell’intreccio di mani o lingue che si cercano o si sottraggono.”
Cominciò a sospettare qualcosa, così affondai l’ultimo morso “Tutto finto e, a spettacolo finito, sei sola e vuota. Piena di bottigliette smezzate e pop-corn calpestati, colma solo del sudiciume che solo il genere umano sa produrre e lasciarsi dietro.”
Nel silenzio che ne seguì, una linea di sorriso, a compiacersi della crudeltà sputata, mi si stampò sulla faccia e, quindi, attesi che il silenzio annegasse nel suo puntuale, quanto inutile, pianto isterico.