Quando aveva le prove dell’abito, zio Milvio mi portava con sé, a volte. Bruno, il suo sarto, senza parlare, mi metteva in un angolo, mi dava un metro di legno, quadrato, mai visto altrove, una pezza avanzata e un gessetto rettangolare, per farmi giocare. In realtà, voleva che mi togliessi dai piedi, ma con gentilezza.
Mi piaceva il contesto, ma non ne coglievo appieno emozioni e risvolti. Per il mio primo ruolo in azienda, zio Milvio mi regalò il mio primo abito su misura, grigio scuro, con il bavero un po’ più largo. Bruno mi parlò e mi regalò la cravatta.
Da allora, la pressione lieve del gesso, il disegno delle linee su di me, la pinzatura con le dita, mi regalano dei battiti che saltano. Il metro, morbido, mi avvolge come in un abbraccio. Il sarto, che corre intorno, è discreto e protettivo. E, da allora, non ho più smesso. Nemmeno di sorridere, tutto il tempo, in quello specchio obliquo.
È un rapporto intimo e speciale. Non parliamo di soldi, io non so quanto costino abiti e camicie, lui non sa quando avrà il bonifico. È oltre la fiducia, diverso dall’amicizia e dalla parentela. Spesso, dopo le prove, ci fermiamo nel suo angolino, per un caffè o un rum. A lui piacciono l’arabica e gli agricoli, quindi anche a me. Con zio Milvio, invece, ci sedevamo a un tavolino del bar, appena fuori la sartoria. Mi comprava il gelato o la cioccolata calda, in base alla stagione, senza chiedermelo. I bambini non sceglievano. Per lui ordinava un caffè, con la “e” allungata e un sorrisino, che servivano ad ordinarlo corretto col brandy, senza che io me ne accorgessi.