C’erano 38 gradi a P., quando ho messo piede davanti al municipio, con la camicia, sotto la giacca, tutta attaccata alla schiena e la cravatta diventata un cappio. Superato l’impulso di scappare in Alaska, ho ripiegato su una più fattibile e produttiva sosta al chiosco che bivacca indisponente, proprio di fronte. E che dice, nemmeno a bassa voce, di quanto sia l’emblema dell’abuso e dell’illegalità a P. Però non posso preoccuparmi io della corruzione in città, quindi, mi fermo lo stesso e ordino un tè freddo. Il tizio all’altro lato del banco, occhialuto e un po’ antipatico, mi chiede, con fare ammiccante, se lo gradisco al banco o in bicchiere. Vedo, dietro di lui, un muro di bicchierini in plastica bianca, quelli famosi. Effettivamente — rifletto — è meglio quello con la cannuccia, così bevo mentre mi incammino, che già sono in ritardo. “Ho capito, quello da venti euro” mi fa sorridendo, mettendo in mostra i denti sporgenti. Pensavo scherzasse, invece no. Mi consegna il bicchiere e un occhiolino osceno, che vorrei accecare, ma riesco a fermare l’indice sotto il pollice. Avevo snasato che ci fosse qualcosa sotto, mi serviva capire cosa. E proprio sotto, adagiata nell’incavo, c’era attaccata una dose di cocaina. Senza nemmeno preoccuparsi di nasconderla. Sono tornato il mese dopo ed era chiuso. Con i sigilli. “Dice che l’abbiano chiuso per spaccio”, mi rispondono nell’indifferenza. Ma davvero? E nessuno che si fosse posto il problema dell’abusivismo in tutti questi anni? A questo punto, pensavo fosse per il tè non abbastanza freddo.
#whitakeracademy