Il profumo del fumo, nella notte scura, illuminata dalla fiamma aranciata, il caldo della brace che avvampa la faccia, il fuoco che scricchiola, il rumore del vuoto intorno, di mare o di montagna, non importa, l’aroma della carne cotta sotto la cenere. È tutto magico. E mistico, quasi.
Nel buio, pesto e nero, non come il falso buio di città, conosci chi sei, frequenti te stesso, ti innamori, scopri il vino e le chiacchiere, i baci e la chitarra, le carezze e le battute sconce, i gesti osceni e gli occhi complici.
Provi sentimenti che non riesci a rivivere, o solo a spiegare, altrove. Il vissuto diventa poesia.
È in campeggio che si cresce e si sviluppa l’anima. Svelo un segreto: non tutti ce l’hanno, l’anima o, meglio, c’è, da qualche parte, ma ad alcuni resta assopita, ibernata. Per sempre.
L’indomani, non ti ricordi i fatti raccontati o quelli accaduti, ma ti ricordi, nitidi, forti, scolpiti nella mente, delle emozioni e di quei sensi rianimati.
Fa niente che quel profumo di fumo diventi la puzza che ti porti addosso anche dopo la doccia, la carne dura e secca e sporca di cenere, le dita scottate e le persone intorno, meno magiche. Per quello che resta dentro, ne vale sempre la pena.
A volte, invidio — ma solo un poco — quel dono di trasparenza di certa gente. Quelle persone a metà tra l’essere un comodino ed un cagnolino di peluche (che quello vero pure reagisce). Non li senti parlare, non li senti pensare, non li senti camminare. Hai il sospetto che manco il Padreterno se li chiami, perché li ha semplicemente dimenticati e li lasci vagare inermi e informi sulla faccia della terra. Anche fuori dal pancione materno, continuano a vivere nel loro liquido amniotico e a nutrirsi di fuffa. Bivaccano nel mondo, finché, un giorno, si dimenticheranno di respirare e scompariranno, come le buste biodegradabili. Una vita senza ricevere e senza dare.
Poi, però, rinsavisco e mi dico che non ce la farei: preferisco i pugni in faccia, le spranghe nello stomaco e le pedate nel culo che, con tanto amore, la vita riserva. Sono la moneta di scambio per provare emozioni, gioire, essere fieri di sé e non vergognarsi di rubare un altro filo d’aria con il respiro. E, io lo sono, fiero.
So che il mio modo di essere, e di fare soprattutto, mi porta a non essere simpatico a tutti. Al solo sentire il mio nome, molti storcono il naso e mi odiano e mi maledicono. Il suono “Whitaker” fa l’effetto unghia sulla lavagna o spray urticante. Ma a qualcuno, invece, la bocca sorride, a qualcun altro gli occhi si illuminano. E mi basta. Come dire, servire non è servire.
Mi è arrivato un pacco. Dagli Stati Uniti… dallo zio d’America, in poche parole. E quando l’ho aperto, le mani sudavano e gli occhi luccicavano, per l’emozione. C’era una lettera d’accompagnamento, scritta a mano, con la grafia calcata, incerta di chi c’ha messo tanto a scriverla e non per il contenuto. Zio Peter mi ha designato suo successore. Non me lo aspettavo.A tredici anni volevo fare il contrabbandiere, per colpa sua. Poi me ne sono dimenticato ed ho fatto altro, per fortuna. Era da un anno morta mamma e zio Peter, in vacanza in Italia, si sentiva in dovere di tirarmi su il morale. Mi raccontava, perciò, storie assurde e fantastiche del bisnonno e della sua famiglia, legate al contrabbando di whiskey, durante il proibizionismo. Appostamenti e mazzette, scazzottate e sparatorie con fucili, tabacco sputato e risate oscene nei bordelli. Da adulto, ho creduto che, quei racconti, fossero il frutto delle fantasie di un bontempone, però volevo crederci e li ricordo nel dettaglio. Oggi, con questo barattolo di whiskey, sono ufficialmente il custode designato di una saga. Ma, soprattutto, avrò un piccolo ruolo nel contrabbando e restituirò la verità al ragazzino che ero. Vorrei assaggiarlo, ma non mi sento all’altezza. La storia è troppo preziosa per disperderla in un sorso e dovrò scegliere con cura il depositario che mi succederà.