Ero partito per Gent da un giorno. Anche i muri ne erano informati. Lui disse di non saperlo e si presentò a cercarmi. Con una mazza da baseball. Paola, dal desk, provò a balbettare qualcosa, mentre le si sbiancavano le efelidi per la paura, ma non le riuscì di convincerlo. Lui, ormai invasato, roteò la mazza sopra la testa e spaccò il telefono e, con due passi, arrivò alla stampante. Spaccò pure quella. Corse verso il mio ufficio, ma non riuscendo a sfondare la porta, tornò indietro, andando incontro alla vigilanza accorsa, approfittando per rompere un altro paio di cose, giacché si trovava. Vasi fragili e indifesi. Era una rappresentazione teatrale, quella che mise in piedi. Patetici, lui e la sua scenetta. In strada, con il nostro logo come sfondo, mi chiamò e, trovando la segreteria, mi insultò e minacciò. La minaccia più pacifica era “Ti spacco la faccia” e l’ingiuria più gentile “coglione”. Ripeteva, a disco rotto, Whitaker, ma aggiungendo almeno quattro “r”. Pure il gestore telefonico impallidì e mi propose di scappare anziché ascoltare il messaggio.
Non posso dire come, ma ci riappacificammo, senza denunce, e lui pagò tutto. Pure le efelidi sbiancate. In seguito, mi diede appuntamento in una zona malfamata. Pensavo mi avrebbe ucciso e occultato. Invece, era lì il suo ufficio e insistette perché rimanessi a pranzo. Ogni giorno, il suo cuoco va in azienda e gli prepara un menu diverso. Una figata pazzesca: pensavo che solo Mike Bongiorno avesse lo chef personale. Ad oggi, con noi, ha investito più di quanto abbia guadagnato e a Natale, puntuale, mi arriva del Barolo. Mio nonno avrebbe usato tre parole: “Guappo di cartone”. Io non so essere così efficace e sintetico.
C’erano 38 gradi a P., quando ho messo piede davanti al municipio, con la camicia, sotto la giacca, tutta attaccata alla schiena e la cravatta diventata un cappio. Superato l’impulso di scappare in Alaska, ho ripiegato su una più fattibile e produttiva sosta al chiosco che bivacca indisponente, proprio di fronte. E che dice, nemmeno a bassa voce, di quanto sia l’emblema dell’abuso e dell’illegalità a P. Però non posso preoccuparmi io della corruzione in città, quindi, mi fermo lo stesso e ordino un tè freddo. Il tizio all’altro lato del banco, occhialuto e un po’ antipatico, mi chiede, con fare ammiccante, se lo gradisco al banco o in bicchiere. Vedo, dietro di lui, un muro di bicchierini in plastica bianca, quelli famosi. Effettivamente — rifletto — è meglio quello con la cannuccia, così bevo mentre mi incammino, che già sono in ritardo. “Ho capito, quello da venti euro” mi fa sorridendo, mettendo in mostra i denti sporgenti. Pensavo scherzasse, invece no. Mi consegna il bicchiere e un occhiolino osceno, che vorrei accecare, ma riesco a fermare l’indice sotto il pollice. Avevo snasato che ci fosse qualcosa sotto, mi serviva capire cosa. E proprio sotto, adagiata nell’incavo, c’era attaccata una dose di cocaina. Senza nemmeno preoccuparsi di nasconderla. Sono tornato il mese dopo ed era chiuso. Con i sigilli. “Dice che l’abbiano chiuso per spaccio”, mi rispondono nell’indifferenza. Ma davvero? E nessuno che si fosse posto il problema dell’abusivismo in tutti questi anni? A questo punto, pensavo fosse per il tè non abbastanza freddo.
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Una volta mi sono trovato invischiato in un racconto di Carver. Più o meno, insomma. Vivevo da un anno quasi con Alice, o meglio lei abitava a casa mia. Pensavo di essere felice. Incontro il ragazzo che lavora dal mio benzinaio. Ci incrociamo per caso sull’uscio del bar, io per la colazione, lui per un ovetto alla figlia. Mi guarda stranito. Lo invito per il caffè e declina, così gli pago l’ovetto alla figlia. Prima di uscire, però, mi tira per un braccio, mentre ero già piazzato per il caffè al banco. È reticente, ma, al tempo stesso, non riesce ad andarsene. Guarda ovunque, tranne che sulla mia faccia, poi finalmente, come un veterinario di campagna, non senza fatica, gli tiro fuori il vitellino che c’ha in corpo. E mi dice di aver visto Alice con uno. Ma visto non nel senso di vedere, quanto constatare qualcosa di inequivocabile. È imbarazzato che manco se me le avesse fatte lui le corna. E mi tocca quasi consolarlo. Gli dico di rilassarsi che ci siamo già lasciati da un po’. Non so se mi crede, ma ritorna a respirare e parlare normale e se ne va. Mi dimentico del caffè e torno a casa. Impacchetto un bel po’ delle sue cose in tre valigie e, da uno dei nostri corrieri, gliele faccio portare nell’hotel dove mandiamo gli ospiti dell’azienda. Pago per una settimana. Nel frattempo, Riccardo mi cambia le serrature del cancello e della porta. Poi, ho bevuto tanto whisky. E mi sono catapultato in una pagina scritta da Bukowski.
«Lei non si deve arrabbiare, signor Whitaker.»
Ah, guarda, ora che l’hai detto, non mi arrabbio più, come per magia. Innanzitutto, io non mi arrabbio, ma mi incazzo. Rende di più l’idea, l’arrabbiatura mi sa di palliativo scemo. E io, che fino ad oggi mi sono sempre incazzato, perché nessuno mai, che m’avesse detto che non occorreva. Devo proprio ringraziarti! Sta a vedere, poi, che le mie emozioni debbano essere dettate da te. Se vi sto inveendo contro, è perché tu, che sei incompetente, e il tuo capo, incompetente, pure lui, ma pure idiota, state blaterando richieste assurde e inaccettabili. Non è che sono pazzo, o forse lo sono anche, ma in questo frangente, è del tutto irrilevante. Dopo la frase inutile di CG, è diventato inutile parlare. Mancano proprio i presupposti basilari, come l’intelligenza (loro), tanto per dirne uno. Quindi, non l’ho fatto. Non ho detto niente di tutto questo, ma l’ho pensato, lasciando il cubicolo dov’eravamo – che chiamano ufficio – in un silenzio imbarazzante e palpabile e, dopo averlo pensato, ho salutato e me ne sono andato, con Carmine che, in qualche modo, mi seguiva scomposto e distrutto. Fuori ho respirato aria fresca e di mare. Pulita, soprattutto. Mi sono goduto la salsedine e il sole. Carmine, di fianco a me, non mi guardava né mi parlava, terrorizzato che avessi bruciato un accordo proficuo. Io stavo bene e sorridevo. Dopo due giorni, CG mi ha mandato l’accordo firmato, con le mie condizioni, senza correzioni, ma, al telefono, mi ha detto che il suo capo, però, non mi riceverà più. Non amo le negoziazioni muscolari, ma non ci sono soldi che tengano, quando so di avere ragione.
Tornavamo da un meeting. Avevo un disagio dentro, non consapevole. Tra una cosa e l’altra, nel bus noleggiato dall’azienda, perché il guru di turno ci aveva detto, con enfasi: “fa team building!”, spunta una bottiglia di spumante. Penso ad un compleanno o alla felice conclusione dell’evento. Invece, quello che tiene la bottiglia, ci chiede di brindare, ma non vuole dirci a cosa. Ha un sorriso falso e cattivo, stampato sul faccione scemo. Resto sorpreso e non mi piace. Mi assale un mutismo selettivo e un odio profondo, verso molte di quelle persone che brindano. Io rifiuto, dicendo che non mi piace quella marca di spumante. In realtà, non mi piacciono loro, ma non so ancora il perché. Anche una mia collega non brinda e non le chiedo il suo, di perché. Ha deciso il mio istinto per me, si è assunto la responsabilità di una decisione, obbligandomi a dire no, con la lingua, la mano ed un movimento della testa. Mi ha guidato e, ancora oggi, lo ringrazio. Il lunedì successivo, alcuni tra loro, annunciano la scissione, ci lasciano in mutande a molti, e di sale a quelli che li avevano sorretti nei festeggiamenti, per farsi poi pugnalare alle spalle. Nella nuova società, assumono gli stessi comportamenti che ci criticavano e per i quali sono andati via. Com’è strana la gente, penso. Allora era l’invidia per non avere il potere, a farli parlare, non gli ideali che sbandieravano, di etica e giustizia. Con alcuni di loro, di tanto in tanto, mi capita di mangiarci insieme, il mio istinto continua a non fidarsi e mi dà pugni nello stomaco. Lo spumante, comunque, era veramente scadente, ma non quanto loro.
Ridevo all’ennesima battuta sguaiata di Augusto, aspettando, che il cancello si aprisse, per entrare. Stella si materializzò, senza che avessimo bussato, e ci indicò la strada. Ci trovammo davanti la facciata di una splendida villa del ‘500, su una delle vie storiche di Roma, la Flaminia, mi pare. Vedemmo la Corvette gialla, la Ferrari blu e la Macan nera. Parcheggiammo lontano, con il disagio da sfigati, addosso. Eppure, avevamo una tedesca, anche se bianca, ma con il blasone sul cofano.
Stavamo entrando in un mondo patinato, sfavillante, lussuoso, di un’opulenza grassa e sconcia, quasi. Nel cda avevamo deciso che io dovessi essere il nostro volto per il video da realizzare, insieme ad Augusto. Rimasi impressionato per la cura maniacale al dettaglio. Per meno di cinque minuti di film, lavorammo quattro ore. Trucco, pennelli, polveri sbattuti in faccia e il regista che interrompeva di continuo: la “o” era da aprire, la “e” da chiudere e viceversa. Quell’inflessione da smussare, il naso da raddrizzare, gli occhi, la bocca fuori sincrono. Ovunque, c’era il pelo nell’uovo. A me sembrava tutto identico e tutto buono, già al primo ciak. Facemmo diverse pause, passeggiando nel parco della villa, per ritrovare – testuali parole – l’armonia tra corpo e mente, rilassarci e concludere. Finalmente, a ora di pranzo, finimmo e Stella insistette affinché restassimo. Ci aspettavamo calici di Franciacorta accompagnare ostriche e caviale. Andammo alla tavola calda di un bar, a noi fu offerto il pranzo, la quindicina di ragazzi della troupe dovette fare ognuno per sé. Scoprimmo che erano loro, quelli a sentirsi sfigati e noi visti patinati e sfavillanti. Ci fecero un sacco di domande sul nostro fantastico mondo della finanza e dell’economia. Va’ a capire di chi fosse la Corvette!
Alla fine, l’ultimo oltraggio, l’ultimo schiaffo l’ha subito da un attacchino che, senza grazia, quasi senza rispetto, le ha spiaccicato sulla foto il pennello intriso di colla, per finire in fretta e andarsene altrove. Vallo a capire dove. E di schiaffi, Filomena, ne prendeva ogni giorno dalla vita, come una bulla che si accanisce sulla più fragile della classe. È stata per me non una mamma — è una parola troppo grossa e va maneggiata con cura, per distribuirla in giro, specie per uno che l’ha perduta da ragazzino — ma una persona speciale, sì. Era una di quelle persone sempre ai margini, nella vita, nella società, nei pensieri della gente, persino, che poi ci si abituano pure, ci ballano persino su quei margini, ma sempre ai margini stanno. L’ho conosciuta che ero già adulto, faceva dei piccoli lavori a cottimo dal mio sarto. Ricuciva l’anima con la stessa naturalezza con cui ti aggiustava l’orlo, senza nemmeno guardare. Ti sagomava lo spirito con la disinvoltura di quando maneggiava il colletto della camicia. Non era colta, ma le sue parole erano colme di insegnamenti, non era ricca, ma regalava molto più di quanto ricevesse. Non era giovane, sana e bella fuori, lo era dentro. Per questo sarà immortale. Non è facile da spiegare, ma provo pena per quel figlio lontano, che non è riuscito a conoscerla.
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«Caro P, con tutte le palle che ci stai raccontando, possiamo riempire un bell’albero di Natale!»
Per qualche istante, mi sembrò pure carina come battuta, poi, con gli anni, è subentrata una strana forma di sgomento. E con altri anni che sono seguiti ancora, mi è parso, comunque, un insegnamento. Stavamo in classe, uno di noi era in interrogazione, al cospetto del prof e della lavagna sporca, con dei segni, ma soprattutto con le ombre della lezione di prima e la polvere del gessetto. Effettivamente, quello che diceva P, poco c’entrava con l’interrogazione, con la materia stessa. Allora mettigli impreparato e mandalo al posto, pensavo, puntando sulla questione di metodo, soprattutto quando a sfotterlo fosse il prof, quello che poi avrebbe minato la formazione dei successivi tre anni, per diverse materie. Aveva stabilito, infatti, che il programma fatto l’anno prima da un altro insegnante, non andasse bene e, quindi, ce lo fece rifare, saltando completamente quello dell’anno in corso. Produsse notevoli danni, formativi e comportamentali, mancò di rispetto agli alunni e al suo collega. Per anni sono stato incazzato, ma poi la rabbia è scomparsa. La metti in un angolo, quella, finché un giorno non la trovi più e non sai se l’hai lasciata andare o sia scappata. Mi ha insegnato uno stile di vita, il rispetto dei ruoli, a non annientare, ma proseguire il lavoro dei collaboratori e dei colleghi, correggere ed integrare, semmai. Il rovescio della medaglia è che non lo ha fatto in modo consapevole. Gli è venuta come botta di culo, diciamolo.