Whitaker – #shortstory n.79

Sto in silenzio, a volte, ma il silenzio non è mancanza di argomenti: è ascolto, è interesse. O è indifferenza. Comunque, una dimensione cercata, un’espressione voluta.

Agli stolti può sembrare mancanza di argomenti, ma non è questo il caso.

La prima volta l’ho ascoltato – in silenzio – con interesse, perché me ne avevano parlato benissimo e tendo a fidarmi delle persone che stimo. Avevamo, finalmente, il nuovo direttore marketing, arrivato con squilli di trombe, rulli di tamburi, fanfare, tappeti rossi. Mancavano i nani e le ballerine, ma sottotraccia il pagliaccio c’era, ero io a non saperlo ancora. Aveva il nome simile a un vescovo, l’aspetto del cardinale, il carattere di quei baroni all’università, che dopo un po’ sanno solo di stantio e sopruso. Vuoto nel profondo, fumo negli occhi, bile nel fegato.

Il primo giorno che ci incontrammo mi chiese di andare a cena insieme, accettai con entusiasmo, pur se mi costò annullare dei programmi precedenti. Andammo al giapponese e mi fregò con tutte le scarpe. Non per il menu, ovvio. Avemmo un proficuo dialogo sullo stato dell’arte, sui progetti in corso, sulle strategie, soprattutto, che sono quelle che mi appassionano di più. Ci lasciammo andare anche a un discreto gossip, ma giusto per qualche risata senza cattiveria. Ero convinto avessimo trovato la persona giusta, più concreto e produttivo del predecessore, bravissimo e serio, ma poco incisivo.

Alla seconda riunione, cominciarono a venire fuori l’anima e la natura del personaggio: era tutto infarcito di autoreferenzialità, anche laddove non necessaria, tutto un susseguirsi, di “questo l’ho inventato io”, “questo l’ho fatto io”, “questo me lo hanno copiato”, “c’era uno sfacelo, figa, fortuna che sono arrivato”.

Gli squilli sono presto diventati stridii e non ha prodotto nulla di buono o di diverso da quanto venisse fatto già: aria fritta, ma in un pack più costoso. Crede di essersi rintanato nel suo angolino di paradiso, ma io l’ho abbandonato. È riuscito a vendere ottimamente il suo ego, ma vale sempre e comunque poco. Prezzo e valore sono due concetti diversi.

Resto in silenzio, per indifferenza.

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Whitaker – #shortstory n.78

Non ho mai avuto un bel rapporto con la scuola. Poi, in qualche modo, abbiamo fatto la pace, ma devo ringraziare zio Milvio se non sono finito a fare truffe o spacciare per campare. E tutto quello che so di importante, è merito suo: la facoltà di economia ti insegna tante cose, ma per impararle e farle tue veramente devi avere un buon maestro. A giustificazione per la mia condotta potrei giocare facilmente la carta della morte di mamma, ma non penso sia quello il vero motivo. Ero uno stronzo già da prima e se non l’avesse uccisa quel Daily sgangherato, probabilmente l’avrebbe fatto il dolore che le avrei causato con una delle mille mie cazzate, cresciute di portata al passo con l’età.

Prima di uscire l’ultima volta per andare allo studio notarile dove lavorava, si era affacciata in camera e mi aveva sussurrato amorevolmente, sembrando di non farla sembrare un’implorazione “Io vado, fai il bravo” a cui seguì un “sì” d’ordinanza. Sapevamo entrambi che ci sarebbe voluto ben altro, però cercavamo di farlo bastare.

Non ce l’avevo con lei, naturalmente, e in fondo nemmeno con mio padre – con lui ho cominciato ad avercela dopo – ma era come se avessi avuto bisogno di trovare sempre nuovi limiti, spingermi sempre oltre, trovare il mio punto di rottura, senza sapere che qualora l’avessi trovato, sarebbe stato impossibile tornare indietro.

Così, pensando fosse un giorno come gli altri, non andai a scuola e con due complici, andammo a rubare due galline e un’anatra che rivendemmo nel paese vicino. Comprammo le nostre prime birre più qualcosa da mangiare e delle figurine di calciatori. Viaggiavo sulle rotte di una bellissima giornata, per questa nuova iniziazione, per questa nuova sfida, per non essere andato a scuola, per l’adrenalina e il sapore di birra che giravano in corpo. È durato qualche ora, fin quando non ho imparato a mie spese di dover sempre aspettare i titoli di coda prima di uscire dalla sala. O dalla vita. E quelle figurine mi ricordano ancora oggi un giorno da dimenticare, come le preci.

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Whitaker – #shortstory n. 77

La prima sigaretta non l’ho fumata, quasi l’ho ingoiata. Tiravo con forza, sentivo le guance rientrare nella faccia, quasi le sentivo sfiorarsi dentro la bocca. Per la voglia di bruciare le tappe, per sentirmi adulto, per la paura fottuta che mi beccassero, per correre ovunque non ci fosse infanzia e preadolescenza attorno. Sono riuscito a non tossire, ma gli occhi mi hanno lacrimato, un pizzicore sulla lingua, un sapore aspro e caldo. L’ho fumata fino in fondo e, dopo aver fatto l’ultimo tiro, con il filtro ormai bruciato e bollente, non sapevo che farne di quei resti consumati. L’ho fumata troppo, per far durare di più quell’esperienza, ma anche perché non sapevo il limite che, evidentemente, avevo superato. In ogni senso.

Ho esplorato nella memoria scene di film: nuvole di fumo, facce truci, arie soddisfatte, poi, tenendola tra due dita, con il medio l’ho lanciata e subito dopo rincorsa per andare a spegnerla e cancellare ogni prova della bravata. Di brace quasi non ce n’era più quando l’ho schiacciata, ma ho provato comunque un piacere elementare, un bisogno primordiale, quasi. Ma un po’ la stavo anche nascondendo sotto la scarpa.

Mi sono sentito grande, come non mai, nemmeno al primo bacio, un po’ dopo, mi sono sentito tanto enorme. In fondo sapevo quanto fosse solo fumo, ma non lo avrei ammesso nemmeno davanti al Padreterno. Avrò avuto dieci anni e mi hanno beccato, ovviamente. Oggi quando fumo, lo faccio sempre al buio, come a nascondermi. A me stesso e agli altri. Guardo la brace viva, ascolto il rumore della carta e del tabacco che si consumano o della vita che si accorcia, penso ogni volta con tenerezza a quel moccioso nascosto tra gli alberi, penso che dovrei smettere e dovrei cominciare a crescere: da bambini lottiamo per fare le cose da grandi, da adulti se non accettiamo di esserlo e imitiamo i piccoli, restiamo dei mocciosi.

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Con la porta aperta – …in Brasile

Mai ci saremmo aspettati di sbarcare in Brasile!!!

Grazie a Kindle Unlimited (il sistema di lettura in abbonamento di Amazon) “Con la porta aperta” è stato letto fin lì
Viaggio lungo, durato 2 mesi, ma alla fine conta il risultato.
E ora, come a Risiko, tocca conquistare la Kamchatka…ma Malta va bene uguale
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Whitaker – #shortstory 76

Tra i nostri collaboratori ce n’è stato uno, in particolare, che tutti abbiamo amato. Proprio tutti, non solo noi colleghi, ma anche i nostri partner, i nostri clienti senza differenza di ruolo o grado. Per i modi, la professionalità, l’empatia. La battuta pronta, la mano tesa, la spalla disponibile. Sempre. Non rientravano nelle sue risposte i “no” e i “non si può fare”. Mai.

Un giorno però, il suo corpo è stato preso in ostaggio: un cancro ai polmoni. Ha tirato fuori ancora più grinta, insieme a una rabbia condivisibile. I primi tempi non ci sono stati problemi: ha compensato le piccole carenze con più abnegazione, già al limite, e tutti gli hanno dato la massima collaborazione, facendo finta che tutto fosse come sempre.

Poi, però le cose sono peggiorate e le carenze sono diventate cazzate: dopo la chemio si è messo in auto e per poco non si è ucciso. Dopo essere passati in ospedale, zio Milvio e io abbiamo deciso di metterlo al riparo da probabili ripercussioni degli altri soci che non lo conoscevano o che se ne fottono delle persone, per i quali sono solo gente. Non lo abbiamo demansionato, ma affidato compiti meno in vista, così che le sbavature non potessero emergere.

Non ha apprezzato. Per niente. Si è imbestialito e ci ha incolpato di averlo messo da parte solo per salvaguardare il business, chiedendo quindi il supporto di chi non avesse, però, il coraggio di dirgli la verità. Ci ha insultati ma non ci siamo offesi né io né zio Milvio, consapevoli di averlo fatto per lui e di tutelare i profitti non ci è passato per la mente. Mai.

Lui non ce l’ha fatta e l’unico rammarico è che non c’è stato il tempo di chiarirci. Ho sempre creduto e sperato, però, che nel suo intimo – nonostante le parole di altro tenore – non abbia mai messo in dubbio l’affetto e la stima che ci legavano. Fare il bene di una persona non vuol dire fare ciò che desidera, ma ciò che è giusto per lei.

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Capua il luogo della lingua festival

La manifestazione, CAPUA IL LUOGO DELLA LINGUA FESTIVAL, è di quelle importanti

La location, il MUSEO CAMPANO di CAPUA, è spettacolare

L’ospite che segue, MAURIZIO DE GIOVANNI, è un fuoriclasse

La moderatrice, MARILENA LUCENTE, è d’eccezione

Non si può mancare, quindi!!!

Per il programma completo del festival

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Whitaker – #shortstory n.75

Andavo da G.d.A. una o due volte l’anno, circa. Facevamo affari insieme, ma non ne parlavamo mai. Quelli poi li lasciavamo a Graziano e Giuseppe, i nostri rispettivi collaboratori. Ne conservo una stima enorme, anche se non ci vediamo quasi più. A stare di fronte a certe persone, capisci cosa voglia dire rispetto, confronto, fiducia, amicizia. Può sembrare strano in un contesto lavorativo. Ma per me è fondamentale. Faceva fatica ad adattarsi ai cambiamenti, specie quelli repentini e improvvisi, ma necessari. Accoglieva il futuro con una linea di malinconia, però poi ci entrava e cercava di starci comodo. Lo salutavo sempre con una battuta, una risata e una stretta di mano sincera, a ringraziarlo del tempo che mi aveva dedicato e del suo insegnamento non imposto. Avrà avuto trent’anni più di me, ma non sentivo la differenza, se non per il baffo bianco e retrò.

Un giorno mi chiese un appuntamento fuori programma: accettai senza esitare e con un po’ d’ansia, per la verità. Mi aspettava sorridente nel parcheggio, quando arrivai, passeggiammo un po’ fuori l’ufficio e mi spiegò la novità: passava il testimone dell’azienda. Al figlio. Alessio, fino a quel momento si era divertito, era diventato maestro di salsa e bachata, ma ora era tempo che lasciasse i passi di danza per quelli nell’impresa di famiglia. Il signor G. aveva perso quella malinconia di fondo per far spazio a una gioia piena, orgoglioso che suo figlio fosse disposto a succedergli.

Il cambio di generazione era una magia che avveniva davanti i miei occhi e io ero felice di farne parte.

L’eredità non sono soldi o beni, che aumentano, diminuiscono, si sgretolano, cambiano i gusti.

La vera eredità è passare il testimone della vita con gioia, fierezza, onore: lasciarne traccia, insomma.

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