Ero un ragazzino stronzo, d’accordo. E lo sono pure rimasto, stronzo, non ragazzino. Questo perché – a mia parziale discolpa – non ho mai sopportato quelli che usano l’autorità senza l’autorevolezza. Può darsi che a quell’età non lo sapessi mettere in fila lucido il pensiero, ma le azioni che ne seguivano erano più o meno simili a quando ne ho poi avuto coscienza. Ho, per giunta, sempre avuto il maledetto – o benedetto – vizio di non farmi intimidire da complessi di inferiorità, fisica, di ruolo, di classe, di status. È per questo che un bullo – un bullone per quanto era grosso – tentò di strangolarmi nei bagni della scuola, in seconda elementare o me ne sia uscito da una società sbattendo la porta, stringendo un pugno di mosche, di quelle appena volate dalla loro materia preferita. Comunque, tornando a prima della lunga divagazione, sì alla dichiarazione di stronzaggine: ero al catechismo per la comunione, insieme a un piccolo gruppo di colleghi, costretti dai genitori e non dalla vocazione, tutti in attesa del catechista che non arrivava. Arrivò, invece, un supplente, come quelli improvvisati a scuola. Esordì proponendo a noi di scegliere cosa fare, fra due opzioni: giocare a calcio nel cortile delle suore o fare le prove per la Via Crucis. Una figata. Vinse il calcio quindici a uno. Una strafigata.
Ma lui non fu dello stesso parere, invece, e disse che non sarebbe stato giusto, per noi, il catechista in carica, egli stesso, Dio (sul serio?).
Avremmo fatto le prove.
Battibeccammo un po’ io e lui, finché non mi alzai e me ne andai, convinto che mi avrebbero seguito solidali gli altri. Sentii, invece, in lontananza l’intro di Pilato e subito quindici voci in coro “Crocifiggilo”, quelle dei traditori.
Il problema non era recitare, mi piaceva pure. L’avrei fatto se non mi fosse stata data l’opzione o se avesse passato il referendum. Avrei rispettato il volere popolare o del responsabile. Ma così non ci stavo.
Presagivo ammonimenti, convocazioni, bocciature, ma non ce ne furono.
Non è mai sbagliato esprimere preferenze, è sbagliato non rispettare quelle degli altri.
Un po’ di anni fa ho conosciuto un manager, simpatico, gentile, corretto, garbato, competente. Una bella persona, insomma. Abbiamo ideato, concluso e siamo stati spalla, a vicenda, in diverse operazioni di successo. Eravamo stati presentati da un amico comune.
Avevamo opinioni diverse, si vedeva, a volta addirittura contrapposte, ma il rispetto per l’altro ci faceva convergere, comunque, su posizioni di dialogo, confronto, senza mai perdere l’educazione e la stima. E poi, c’erano le idee: quelle spesso confluivano nel medesimo incubatore, e ci legavano.
Mi piaceva talmente la sua compagnia che, una volta terminate le nostre frequentazioni professionali, ho voluto portarlo nella mia vita privata.
Ho incontrato un’altra persona. Rozza, attaccabrighe, volgare e senza quell’ironia e autoironia, che l’avevano contraddistinta e tipiche delle persone intelligenti e brillanti. Pronunciava parole intrise di insulti e supponenza, colme dello stesso odio che tanto odiava nei suoi avversari, non più persone ormai, in una lunga e triste battaglia col mondo.
Era il nodo della cravatta, quindi, a tenerne legata la vera, insulsa personalità, ne ho dovuto dedurre. Dismessa quella e infilatosi in una polo diventava un altro. O solo sé stesso.
L’ho allontanato dal mio presente, ma non dai miei ricordi. Ne conservo geloso i consigli, gli sproni, le storie. Una volta mi disse del suo amico divenuto Presidente, a cui cominciò, da quel giorno, a dargli del lei. L’amicizia resta, ma era per il rispetto della carica, mi spiegò. Non colsi appieno, allora, lo capisco oggi, invece.
Le risate uscivano rumorose dall’ufficio, dove entrava sempre un raggio di sole, quando ci incontravamo. È per questo che voglio ricordarlo, altrimenti il tempo passato insieme, sarebbe stato solo tempo perso.
Un sì, al posto di un no e la mia carriera, la mia vita, sarebbero potute cambiare radicalmente. Avrei percorso strade diverse da quelle poi imboccate e a volte addirittura tracciate. Durante una corsa in auto.
Un amico mi chiese di accompagnarlo, una domenica mattina. Per una commissione rapida, aggiunse. Poi avremmo pranzato con un’isola davanti e il mare in mezzo, aggiunse ancora. Ovviamente accettai, non so se per le aspettative paesaggistiche e gastronomiche o solo per fargli compagnia. Sapevo che avremmo corso, non immaginavo che avremmo consumato gli ottocento chilometri, tra andata e ritorno, quasi sempre oltre i centoottanta all’ora e punte di duecentotrenta.
Mi piacque molto quel viaggio, sentivo tutti i cavalli del motore – scalpitanti e rabbiosi – percorrermi la schiena, il sedile sportivo in pelle mi teneva saldo, stretto, come l’infermiere tiene un matto da dietro. L’andata passò senza segni, una corsa folle in cui preferimmo gustarci l’adrenalina scatenata dalla velocità, anche stando solo di fianco, usando parole con poco significato dentro. Parlammo, sì, ma di serate fuori e incroci con le persone, donne e macchine, manco fossero intercambiabili. Al ritorno pilotò abile e sicuro, oltre che la coupé, nera e lucente, anche il discorso, che durò quanto la strada, imperniato un su una proposta di impresa. Un po’ per la sorpresa, un po’ perché avevo imbastito altri progetti, di più, forse, perché proporre e dire mi piaceva più di quanto mi venisse proposto e detto, rifiutai senza riflettere e senza ripensamenti, con la stessa velocità alla quale viaggiavamo. Ci vedemmo poche altre volte e, quando ci incontriamo, ci salutiamo solo da lontano.
È diventato un pezzo grosso, ricco, accerchiato da accoliti sognanti, non so se per leadership o interesse.
Ultimamente, per qualche giorno ho pensato a come sarebbe andato il mio sliding door.
“Va bene così, mi sono ripetuto, fino a convincermi”.
Però mancano quelle corse in auto e quelle chiacchiere intrise di leggerezza.
Inutile girarci intorno: Pietro non è mai stato una colonna dell’azienda né un manager competente. Lo abbiamo tenuto e mantenuto, solo per far contento zio Milvio, e finché ci costava solo in stipendi, benefit e rimborsi bizzarri e generosi, passi. Ma ormai non si trattava più – solo – di pagare caffè e pasticcini a inutili passacarte e perfetti sconosciuti, faceva danni anche solo aprendo bocca. Può anche darsi che in passato qualcosa di buono l’abbia fatta, ma non se n’è trovata traccia.
Decidiamo, quindi, di collocarlo in ferie, dovrebbe starci molti mesi, per azzerare tutte quelle mai prese: spudoratamente in vacanza da anni!
Risparmiamo i caffè e i danni collaterali, ci consoliamo, dopo aver fatto digerire la cosa anche a zio Milvio, messo di fronte a inequivocabili evidenze. E iniziamo così ad allontanarlo dall’azienda definitivamente, pensiamo.
Comincio quasi a considerarlo un simpatico e nostalgico ricordo, da riderne alle cene goliardiche, quando lo incontro al tavolino del bar, di fianco al mio sarto. È lampante l’imbarazzo, sottolineato dalle guance, dello stesso rosso della cravatta. Per il resto, ha il suo abito blu migliore e l’inseparabile agenda, che ho sempre immaginato con i fogli intonsi. Quel nome dorato, in rilievo sul cuoio, l’ho sempre trovato di cattivo gusto e fuori moda, ma non gliel’ho mai detto.
Mi confida, a questo punto, di non aver comunicato le ferie in famiglia e così esce di casa ogni mattina regolarmente, come fatto negli ultimi trent’anni, manco dovesse salvarci dal fallimento. «Sai – continua – loro mi attribuiscono un ruolo decisamente superiore.»
“Chissà chi glielo abbia fatto percepire” penso, ma taccio, saggio sì, ma spossato da questa situazione incancrenita.
Tempo qualche giorno e scopriamo di come abbia portato avanti alcuni affari durante le ferie, per attaccamento all’azienda, ha sbottato lui, ma costruendo parallelamente altri problemi e sempre più grossi.
E niente, alcuni sono proprio infestanti e deleteri come la gramigna, ma si danno le arie dell’aloe vera.
Ogni racconto ha una sua vita e una sua storia.
“Alba, nella notte” nasce in un ufficio spoglio e brutto. Un collega, quando poteva, mi raccontava frammenti della sua vita, come fossero trailer:
un sabato, dopo il lavoro, corse a Montecarlo, per sesso e champagne,
era volontario presso un centro di sostegno psicologico, gli serviva per l’università.
due sue amiche avevano acquistato loro stesse e operavano in proprio, ormai, come prostitute. E qui mi sono incagliato: Alba, come la nascita di un giorno nuovo e la canzone di #vascorossi. E sì, lui somiglia a Fabio!
Il seguito è finzione della mente, nella realtà delle parole.
#whitakeracademy #michelepalmieri #conlaportaaperta #storytelling
Ogni racconto ha una sua vita e una sua storia. “Tre sassi soli nel deserto” nasce in una notte d’inverno, in un sogno, in cui la prima scena è una stanza un po’ annebbiata con il protagonista triste e muto. Arriva lei e si presenta “Sono Giulia, Giulia Ostero”. Il nome di lui non è importante, invece. Il protagonista sente l’alito di lei sulla guancia. Poco dopo tutto sfuma nel frastuono di una sveglia invadente. Il seguito è finzione della mente, con la realtà delle parole.#whitakeracademy #michelepalmieri #conlaportaaperta