Whitaker

Ho attraversato di corsa la preadolescenza e ancor di più l’adolescenza, convinto di riuscire a domare e dominare gli anni, determinato a voler diventare – ancor prima di essere – adulto, non comprendendone appieno il significato, forse.

Dopo la morte di mamma non ho fatto altro che correre, senza sosta, senza guardare mai indietro e nemmeno di fianco. Senza vedere, niente e nessuno. Solo un lungo e veloce viaggio in avanti, ma in apnea e spericolato.

Oltre che nella vita, anche nello sport correvo: spesso, distrattamente, dietro un pallone e, sempre, ma con impegno e fatica, sulla pista di atletica. Correvo veloce, ma mai abbastanza da allontanarmi tanto dagli undici secondi. Così, li vedevo, sempre, troppi secondi persi che avrei potuto e dovuto destinare ad altro. E un giorno bruciai tutto: completini, scarpe, borse. In un unico fumo, scuro e puzzolente, finirono tessuti e sogni, intrisi di sudore e lacrime.

Non volevo che gli adulti mi trattassero come un bambino, orfano per giunta, o pensassero fossi debole e bisognoso di affetto, mi ripetevo nella testa. In realtà, correvo dal passato e dal presente, concentrato ad allontanarmi quanto prima da quel funerale e quelle pene e quelle scene strane che si susseguivano.

Poi, però, di notte, mi nascondevo sotto le lenzuola, sopraffatto dall’insistenza del tempo, dal peso degli ordini che mi impartivo, dalla paura di non farcela a fare da padre a me e a mio padre che, come un’ameba, sostava nello spazio e fra le cose.

Tutto questo l’ho capito da adulto, ma non saprei spiegarglielo al me ragazzino, se dovessi incontrarlo.

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Eravamo diventati talmente prevedibili che, ogni cosa facessimo, viaggiava più veloce tra i nostri concorrenti che al nostro interno. E, sospettavo pure che qualcuno facesse il doppiogioco, talmente combaciasse ogni minimo dettaglio.

Zio Milvio si comportava troppo bene con chiunque e tanti ne approfittavano. Non che non lo rispettassero, ma a volte lo trattavano con sufficienza.

Tutti erano convinti che nulla sarebbe cambiato, quando ho cominciato a sostituirlo. Per un po’ è stato così, infatti. Ma prendevo le misure, imparavo, chiedevo, compravo persone e cose. E, quelli, non l’avevano capito.

Quindi, cominciarono i cambi di rotta repentini e drastici che spaesarono i più. Dentro e fuori l’azienda.

Uno, addirittura, scommise la sua Maserati sulla mia prossima mossa, convinto di saperla lunga. Più lunga di me. Vabbe’ che era una Ghibli, ma dovette comunque lasciargli le chiavi, a uno dei nostri storici partner. Quando Paolo mi raccontò della scommessa e della posta in gioco, non riuscii a fermarlo nello stomaco il ghigno di soddisfazione, cattiveria, rabbia. Ma non verso l’avversario. O non solo, almeno.

Mi sono dovuto avvalere di complici, brigare contro il sistema, beffarlo con le sue stesse difese.

Pensare fuori dagli schemi, agire fuori dalle regole.

Ho imparato una grande lezione: la forza del mai. Mai pensare “abbiamo sempre fatto così”, mai mancare di rispetto all’avversario, mai decidere senza aver valutato tutte le mosse, mai pensare di non poter cambiare le cose, mai scommettere se non si è sicuri di vincere.

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Il rumore delle nocche sulla porta aperta mi ha fatto fare un piccolo balzo. Lei se n’è accorta e si è scusata, senza averne colpa. Dopo che è uscita, quel “senza averne colpa” è continuato a starmi in testa, inceppato tra i pensieri.

Lavora con noi da quando ci siamo conosciuti in aereo. Lei stava con la figlia, io col terrore di essere infastidito. Dalla mocciosa intendo.

Tornavo da una negoziazione tesa e lei da un colloquio. Entrambi appesi ad altri e non stavamo comodi, in quei panni. Una persona così, non puoi fartela scappare e, alla fine del volo, al bar dell’aeroporto, la assunsi. Poi è cresciuta e ora guida diversi progetti.

Già in aereo mi raccontò di come fosse nata Gioia, la novenne che, sulle nostre chiacchiere, s’era addormentata. Allegra era stata picchiata, stuprata, messa incinta dal suo vicino, ma dopo avergli rotto un vaso tra orecchio e nuca, lo aveva immobilizzato e spedito in galera. Senza neanche il tempo per far albergare dolore e rabbia, seppe di essere incinta. Decise di non abortire, trasformando la sua frustrazione in gioia, da cui il nome della figlia. Con un linguaggio semplice, ma crudo, decisa a non mentirle mai, le ha già spiegato di quanto sia stato diverso il processo, ma quanto più solido e importante sia il risultato, senza farla sentire orfana o diversa. Da quel giorno, inoltre, aiuta le donne senza la sua stessa forza, battaglia nella quale, in azienda, siamo intervenuti a sostenerla.

È forte, serena, sicura, determinata, ma sembra sempre che stia riparando a un danno, senza averne colpa.

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Spinta da più parti, era entrata in azienda Mara N., la figlia del sindaco. Era un’odiosa e spocchiosa figlia di papà, nemmeno brillante, che catalogava chiunque dai soldi in tasca e le griffe addosso. Prima che l’assumessimo, cercava di guardarmi dall’alto in basso. Bloccavo quei tentativi, sorridendo da stronzo a quegli occhi aperti per metà, sotto una linea pesante di rimmel.

Conosceva Carla e apparteneva al coro che le canticchiava di lasciarmi perdere, ché non ero al suo livello e meritasse di meglio. Ora, alle mie dipendenze, aveva cambiato atteggiamento e io morivo dalla voglia di darle ragione: eravamo a livelli differenti, ma non stavo io in basso, e non per i soldi o lo status, ma perché avevo un’anima, anche se non sempre nobile.

E un giorno le parlai. “Sei la sala di un cinema”, esordii nel mio ufficio. E lei, pensando fossero complimenti, rilassò subito la mascella. Così azzannai, forte, la giugulare:

“Al buio sei luminosa, accesa dai lampi riflessi sulle pareti, vivi del dinamismo e della passione proiettati.”

Ancora si compiaceva, dondolandosi un pochino, così continuai “Ti animi delle risate degli spettatori, soffri con le loro lacrime, ti emozioni nell’intreccio di mani o lingue che si cercano o si sottraggono.”

Cominciò a sospettare qualcosa, così affondai l’ultimo morso “Tutto finto e, a spettacolo finito, sei sola e vuota. Piena di bottigliette smezzate e pop-corn calpestati, colma solo del sudiciume che solo il genere umano sa produrre e lasciarsi dietro.”

Nel silenzio che ne seguì, una linea di sorriso, a compiacersi della crudeltà sputata, mi si stampò sulla faccia e, quindi, attesi che il silenzio annegasse nel suo puntuale, quanto inutile, pianto isterico.

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Stavo con zio Milvio e passeggiavamo giù al porto, era il giorno del mercato settimanale e, più parlavamo, più la salsedine restava attaccata alla faccia e l’affetto a qualcosa dentro.
Mi disturbava quel profumo di mare che, di solito, amavo, ma ora sovrastava quello dell’acqua di colonia di Milvio.
Era diventata una specie di rito, quella passeggiata tra le bancarelle, non compravamo mai niente, ma disperdevamo le nostre chiacchiere tra la gente, consapevoli che non servissero a nessuno se non a noi. Per lo più, parlavamo del mio lavoro e mi chiedeva, premuroso, se potesse fare qualcosa per me. Non era più lo zio Milvio di quand’ero piccolo, quando lo guardavo con ammirazione, ora lo custodivo con rispetto.
Si fermò da Alfredo e cominciò a toccare e provare un cappello. Aveva perso il suo Borsalino, come a giustificarsi, ma non voleva spendere troppo. Tanto non gli sarebbe servito per molto, aggiunse. Ma lo disse come se non volesse intaccare la mia eredità. Lo trascinai lontano, fino dal cappellaio che li confezionava ancora su misura, uno a uno. La vidi come un’incoronazione alla saggezza, grato di avermi guidato.
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