Ho attraversato di corsa la preadolescenza e ancor di più l’adolescenza, convinto di riuscire a domare e dominare gli anni, determinato a voler diventare – ancor prima di essere – adulto, non comprendendone appieno il significato, forse.
Dopo la morte di mamma non ho fatto altro che correre, senza sosta, senza guardare mai indietro e nemmeno di fianco. Senza vedere, niente e nessuno. Solo un lungo e veloce viaggio in avanti, ma in apnea e spericolato.
Oltre che nella vita, anche nello sport correvo: spesso, distrattamente, dietro un pallone e, sempre, ma con impegno e fatica, sulla pista di atletica. Correvo veloce, ma mai abbastanza da allontanarmi tanto dagli undici secondi. Così, li vedevo, sempre, troppi secondi persi che avrei potuto e dovuto destinare ad altro. E un giorno bruciai tutto: completini, scarpe, borse. In un unico fumo, scuro e puzzolente, finirono tessuti e sogni, intrisi di sudore e lacrime.
Non volevo che gli adulti mi trattassero come un bambino, orfano per giunta, o pensassero fossi debole e bisognoso di affetto, mi ripetevo nella testa. In realtà, correvo dal passato e dal presente, concentrato ad allontanarmi quanto prima da quel funerale e quelle pene e quelle scene strane che si susseguivano.
Poi, però, di notte, mi nascondevo sotto le lenzuola, sopraffatto dall’insistenza del tempo, dal peso degli ordini che mi impartivo, dalla paura di non farcela a fare da padre a me e a mio padre che, come un’ameba, sostava nello spazio e fra le cose.
Tutto questo l’ho capito da adulto, ma non saprei spiegarglielo al me ragazzino, se dovessi incontrarlo.