Whitaker

«Cerco lo sguardo nei tuoi occhi solo per capire quale sia la vetta della tua idiozia. In realtà, non trovo né l’uno né l’altra: non hai il carattere per avere uno sguardo diretto ed è troppa l’idiozia di cui sei pieno per arrivare — almeno per me — a vederne la fine.

Sono arrogante, presuntuoso, a tratti stronzo, lo so, così come so di valere, almeno professionalmente, molto più di quanto tu possa mai raggiungere nell’arco di dieci vite. Non è solo una questione di esperienza maturata sul campo e non per grazia ricevuta, quanto, piuttosto, un insieme di capacità, attitudini, apertura mentale, creatività, competenze, di grammatica, addirittura aggiungerei.

Più volte ho cercato di trasmetterti cose, più volte ti ho dato istruzioni, facendo finta di non capire il tuo goffo tentativo di carpirmi competenze che non hai, da rivendere sulla tua bancarella in un mercatino di periferia, per appagare il tuo ego sfiatato e vigliacco.

Sono insensibile? Sì. Sono Cattivo? Probabile. La realtà è che ne ho fin sopra i capelli del perbenismo e delle ipocrisie di certe persone e di te, in particolare.»

Che bel suono, lo sbattere della porta alle mie spalle.

Whitaker

A una cena, per l’anniversario aziendale, ingaggiammo un comico. Io non c’ero alla decisione, ma non sarei stato d’accordo. Non al testimonial, al personaggio specifico, perché ti guarda come fanno i cammelli, muovono il ciuffo, scoprono i denti, con una smorfia, e sembra che ridano. Di te, però, mai con te. Ti deridono, insomma, ma per un artista è imperdonabile.

Tenne uno spettacolo, cui nessuno rise, perché non fu comico, fu una pagliacciata, nel suo stile. Ci rimase male e si intristì, abituato com’era ai suo discepoli. Al cda successivo, decidemmo, allora, di inviargli un presente eno-gastronomico, approfittando di un tradizionale gala a casa sua. L’accattone, tempo qualche giorno, ci chiamò e non per ringraziarci, ma lamentarsi e chiederci un’integrazione, altrimenti cibo e vini non sarebbero bastati per la serata.

Non contento, anche negli anni successivi, continuò a chiamarci per farci contribuire, nonostante non fosse più nostro testimonial, ma continuava altrove, a fare il comico. E il pagliaccio, soprattutto.

Per un po’, gli è andata bene, ma l’ultima volta, il mio ex socio Piero non c’era e mi passarono la telefonata. Non è stato un bel momento, ma ne vado fiero.

Whitaker

Pedalavo forte quell’anno. Più scorrevano giorni di merda, uno dietro l’altro senza tregua, e più spingevo sui pedali, con forza, rabbia e tutto il rancore che restava denso, dentro, dal lavoro.

Ero il deputato al ruolo del cattivo. È — evidentemente — così che mi vedevano e vedono. Occorreva litigare con i sindacati? In automatico squillava il mio interno. Occorreva “accompagnare” alla porta un fornitore o un dipendente? La spilletta con scritto “facilitatore” si appiccicava sul mio bavero.

Con qualcuno, mi sono anche divertito a sbatterlo fuori, sia chiaro, però lo stress era a mille. Non era la parte del cattivo a pesare, quanto a doverla svolgere alla perfezione, senza possibilità di sbavature, distrazioni.

Devi essere perfetto, come stronzo.

Non basta una doccia, poi, per pulirti dagli sguardi torvi e dalle maledizioni che ti restano addosso, quando passi.

Pedalavo in bicicletta e correvo e salivo e scendevo per seminarle, quelle maleparole e malazioni. Mie e non mie. Soffrivo in sella per sentire i sensi vivi.

Non pedalo più, ormai. Devo capire se ho smesso di essere il cattivo o ho smesso di preoccuparmene.

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L’appuntamento era per il mercoledì, quello subito dopo. Io la vidi nel mezzo tra i due.

Non sapeva che aspettarsi né che volesse, in fondo. Una cosa, però, la sapeva. Sapeva di volere lui e nessun altro, almeno in quel momento.

Le piaceva come vestiva, il portamento, il profumo, il sorriso.

Le piaceva, soprattutto, il fatto che, proprio lei, gli piacesse. Ma, ciononostante, temeva che, d’un tratto, tutto potesse finire.

Non era incline alla vita in coppia, quanto a quella in branco, perché le piaceva essere notata, essere il centro dell’attenzione, ma con la spocchia di chi finge di non accorgersene.

Non era abituata nemmeno a sudarsi le cose, fortunata a trovare sempre qualcuno che spianasse la strada o la otturasse, a seconda delle circostanze.

Era un mercoledì, ma molto dopo, quando cominciò a riflettere sugli anni passati, a sfogliarli come un album in bianco e nero. Sì, le cose fatte, ma soprattutto, quelle non fatte e perse nelle trame dell’indifferenza, a volte, della sofferenza, in altre!

Molti tratti erano spariti, seppelliti o, più probabilmente, era tutto uguale, solo gli occhi diversi. E tutto ancora da succedere, tutto ancora da vivere, purché, si riuscisse a chiuderlo. Senza trovarsi invischiati nel giovedì.

Whitaker

Quant’è bastarda la memoria. Solo a volte, almeno.

Camminavo tranquillo e, d’improvviso, il verso di un gabbiano mi ha sorpreso e traghettato fuori dai miei pensieri sconnessi, deviati, però sereni.

E, quell’urlo inaspettato, ha riportato in superficie una serie di sapori, emozioni, profumi, immagini, umori, tutti belli, profondi e, soprattutto, miei. Ho cominciato a pregustare un fiano aromatico e freddo, delle ostriche crude su un letto di ghiaccio e quel tavolo proprio di fronte il mare, poi… Per non parlare del sole che scalda la pelle e da cui sale, l’attimo dopo, il tuo odore.

A un certo punto, ho risentito il gabbiano, come se mi chiamasse e mi sono girato, quindi.

Ho realizzato solo in quel momento che garriva, sì, ma non a me: si stava contendendo con un topo l’immondizia di Roma. Ero a due passi dal Colosseo, ma mi è parso il posto più brutto del mondo, ingannato dal clic sbagliato, pigiato nella testa. Mi sono sentito defraudato, spolpato da una realtà, la mia realtà che con la mente, ormai, era già in corso. Sono tornato alla macchina, per andare a Fregene e vivere almeno qualcosa, di quello che si era creato.

Non mi ha mentito, lo so, ma è brutto che la memoria tiri questi scherzi, ma non ha colpa che a Roma ci siano i gabbiani!

Whitaker

Prima che ci “consigliassero” di assumerlo, Carmine aveva un ufficio lussuoso, in una via prestigiosa e ci andava con una Ferrari bellissima, rumorosa e arrogante come lui. Si aggirava, spavaldo e subdolo, al porto, tra i vicoli malfamati, in buvette luccicanti ed era ottimo cliente di molte banche in città. Poi, tutti i mesi, partiva. Andava a Lugano in un tragitto tortuoso, usando treni e auto. Si incontrava con intermediari e multinazionali, del tabacco e degli spirit. Acquistava container zeppi di merci. In contanti. Escludendo il monopolio di Stato. Prima del treno – per la Svizzera – partiva lo show. Si travestiva da frontaliero, ma in calzamaglia. Sotto il jeans, ne indossava – estate e inverno – una robusta, che contenesse una intricata composizione di banconote. Diversi milioni di euro. Al ritorno, andava direttamente al porto ed organizzava l’arrivo, comprando, a due soldi e egual misura, burocrati e beni marci, per camuffare il prezioso carico. Allestiva un nuovo show. Il brutto è che se ne vanti, anziché cercare di dimenticare il passato.

Sta da noi, e non in galera, ché deve fare il bravo, parole sue. Tutori della legge, burocrati e tipi loschi, quando vengono in azienda, vanno direttamente da lui, alla supply chain, anziché in amministrazione. Alcuni hanno rilevato la sua società.

In un posto tra la Libia e la Tunisia dice di avere ancora un container di whisky e, un giorno, dovrà farlo arrivare in Italia.

La storia ritorna, prima o poi.

Un treno di pensieri di Caterina Losi

Potrebbe essere un'immagine raffigurante libro

Mi piace la poesia di Caterina Losi, toccante come solo la scrittura più sincera può essere.
E mi piacciono i fumetti di The_Wooden_Doors, originali come solo un artista vero e maturo riesce a creare.
Questo è un lavoro che hanno fatto insieme.
Per ordinarlo, basta andare alla pagina Facebook This_Wooden_Doors
#WhitakerAcademy

Whitaker

Quando aveva le prove dell’abito, zio Milvio mi portava con sé, a volte. Bruno, il suo sarto, senza parlare, mi metteva in un angolo, mi dava un metro di legno, quadrato, mai visto altrove, una pezza avanzata e un gessetto rettangolare, per farmi giocare. In realtà, voleva che mi togliessi dai piedi, ma con gentilezza.

Mi piaceva il contesto, ma non ne coglievo appieno emozioni e risvolti. Per il mio primo ruolo in azienda, zio Milvio mi regalò il mio primo abito su misura, grigio scuro, con il bavero un po’ più largo. Bruno mi parlò e mi regalò la cravatta.

Da allora, la pressione lieve del gesso, il disegno delle linee su di me, la pinzatura con le dita, mi regalano dei battiti che saltano. Il metro, morbido, mi avvolge come in un abbraccio. Il sarto, che corre intorno, è discreto e protettivo. E, da allora, non ho più smesso. Nemmeno di sorridere, tutto il tempo, in quello specchio obliquo.

È un rapporto intimo e speciale. Non parliamo di soldi, io non so quanto costino abiti e camicie, lui non sa quando avrà il bonifico. È oltre la fiducia, diverso dall’amicizia e dalla parentela. Spesso, dopo le prove, ci fermiamo nel suo angolino, per un caffè o un rum. A lui piacciono l’arabica e gli agricoli, quindi anche a me. Con zio Milvio, invece, ci sedevamo a un tavolino del bar, appena fuori la sartoria. Mi comprava il gelato o la cioccolata calda, in base alla stagione, senza chiedermelo. I bambini non sceglievano. Per lui ordinava un caffè, con la “e” allungata e un sorrisino, che servivano ad ordinarlo corretto col brandy, senza che io me ne accorgessi.