Whitaker – #Shortstory n.73

Cominciò a girare voce che volessi dimettermi dal cda, pur non vendendo la mia quota. Voci che correvano più di altre, altre che rallentavano per poi incontrarsi, creandone di nuove. In azienda, svoltavi l’angolo convinto di trovarci solo la pianta di sempre e invece, a tenergli compagnia, c’erano pure due a confabulare, mimetizzati tra le foglie. Il distributore automatico sembrava rotto, tanto il ronzio del parlottio delle coppie che si alternavano di continuo. E allora, decidevi di prendere un caffè al bar vicino ma, nascosti dietro dei bicchieri, ce n’erano altri due che arrossivano vedendoti. C’è il pudore della discrezione quando si fa taglia e cuci delle voci: sempre a due a due, come fosse un rito sacro.

In pubblico non mi si chiedeva niente, ma in privato era un turbinio di domande e offerte. Alcune sincere. Tutte le altre, sincere uguali per carità, si preoccupavano per me, mi chiedevano la fondatezza delle voci e se potessero fare qualcosa. Che tenere queste stelline del firmamento. Restavo dolcemente sorpreso, salvo poi scoprire, indagando meglio, che erano sensibilmente meno uguali, così saltava fuori il vero motivo dell’interesse: il mio posto. E ancora di più la mia rappresentanza nel consiglio di amministrazione, visto che non mollavo il malloppo di azioni.

Conservo sempre bei ricordi delle mie aziende, anche quando non sono più mie, proprio perché evito che diventino luoghi tossici, intestardendomi a restare oltre il dovuto.

Da quelle parole, da quei comportamenti mi resi conto che le persone fossero poche, innumerevoli i personaggi, invece. Ovviamente, le voci erano fondate, perché partite da me, ma diffuse da chi avrebbe dovuto tacere. Decisi di vendere anche le azioni, quindi. Nel lungo discorso di saluto, fatto di molte frasi stucchevoli e superflue, della più classica circostanza, non potei fare a meno di rimarcare come nelle fusioni e nelle acquisizioni io sceglievo. Sempre. Gli altri venivano comprati. Sempre. Come nella vita, forse.

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Whitaker – #shortstory n.72

Le amiche di mamma mi facevano sempre domande, tante e sempre uguali. Tornando dalla scuola calcio, spesso le trovavo sul divano a parlare e a bere caffè. Io, decenne, mi imbarazzavo per quelle attenzioni e arrossivo sotto il sudore della partita. Una mi piaceva tanto, era bionda, ma era tinta. Io non lo sapevo ancora che non fosse bionda naturale, ma mi sarebbe piaciuta lo stesso pure se lo avessi saputo. Aveva sempre le unghie e le labbra spalmate di smalto e rossetto vistosi. A mio padre invece, era antipatica, ma credo mentisse e piacesse pure a lui. Lei non domandava, ma passandole vicino, mi tirava a sé per piazzarmi un bacio forte sulla guancia. Avrei voluto morire dalla vergogna, perché sentivo di puzzare come un animale. E come un bambino. Però, con i mesi che andavano, le passavo vicino sempre più spesso.

«Allora, ce l’hai la fidanzata?» era la domanda che, in assoluto, odiavo di più, la più ricorrente, tra l’altro. Poi una volta, mamma raccontò loro del colloquio scolastico, da cui emerse su tutto “si impegna con costanza”, citando la maestra. La bionda, mi strinse il braccio ai fianchi e, come volesse sussurrarlo – ma facendo sentire a tutte – mi disse «Albert e ora vogliamo sapere tutto di questa Costanza.» sigillando col solito bacio rumoroso, pulendo subito con il dito perché, aggiunse, altrimenti Costanza si sarebbe ingelosita. Sulle prime non colsi il gioco di parole, poi cercai di controbattere, ma non uscirono frasi, solo imbarazzi paonazzi e impacciati. Tutte erano divertite, però da lì in avanti, domandavano sempre meno, passando, maggiormente, a scherzare su come – e soprattutto cosa – studiassi con Costanza, quasi a trattarmi non più da moccioso, ma uno di loro, un adulto. Per caso, così, un risultato passò, con l’imbarazzo che sfumava, via via, un po’ di più.

Il giorno del funerale di mamma, la bionda venne, si abbassò alla mia altezza e mi baciò. Il rossetto rimase attaccato alla guancia, ne sentivo la consistenza. Poi mi strinse forte, tenendo il viso premuto al mio e un po’ di rossetto si trasferì dalla mia alla sua faccia. Sentii un calore strano che tenni stretto, senza dirlo a nessuno.

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Whitaker n.71

Ci invitano a teatro. Andiamo in quattro, senza sapere nemmeno il titolo, figuriamoci trama, attori, compagnia. Di solito, declinerei, ma la causa è nobile: l’intero incasso sarà devoluto in beneficenza, per cui, senza porre domande, entro nello smoking ed esco fiero di casa. Assistere alla rappresentazione di una compagnia amatoriale mi mette curiosità e gioia. In teatro, nel ritardo in cui siamo confinati, sento nel parlottio, che l’opera è una tragedia e gli attori hanno provato per mesi. Non resta che gustarmi lo spettacolo, quindi, fa niente che mi stiano rubando sonno.

Alle prime scene mi scappa da ridere, ma dovrei essere travolto da suspense e pathos. Qualcosa non va e cerco di controllarmi, senza girarmi di fianco.

Mi piace molto il teatro, mi appassionano i tempi, l’aria pulita che si respira, i messaggi profondi che arano terreni generosi. E rispetto molto il lavoro, il lavoro di tutti, però è importante che l’aspetto amatoriale non vada a confondersi con il dilettantismo. Qui ci troviamo di fronte a ruoli raffazzonati, trama scadente e prevedibile, interpretazioni di bambini al saggio dell’oratorio. Tra il primo e secondo atto scopro che non c’è stato studio, impegno, sudore, solo tempo, a questo punto, perso.

Finalmente, arriva il finale. Una specie di babbo natale fuori servizio e fuori taglia sta per ammazzare la bella dell’opera. Si gira verso il pubblico, mi guarda negli occhi e con una pistola dei fumetti spara due volte, muovendo la mano come agitasse un frustino che non avrebbe centrato l’obiettivo nemmeno se il cuore si fosse suicidato, andando incontro ai proiettili. Io scoppio in una risata che a stento reprimo nelle mani portate alla faccia, dopo non essere riuscito a trattenerla nelle viscere. Da fuori potrebbero sembrare singhiozzi sconvolti per la fine cruenta e triste. Ma io ci tengo a puntualizzare la motivazione vera: l’evento è stato solo farsa e qualunquismo, senza arte, passione, bravura. L’unica speranza è che il ricavato possa servire a qualcosa di buono. Esco stranito e senza applaudire, con un senso di incompiuto.

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Whitaker

  • Ciao.
  • Che vuoi?
  • Sono il Karma.
  • Bene, me ne mancavano rompiscatole, oggi. Mettiti in fila.
  • Non potrai mai capire il danno che hai procurato a qualcuno, finché non ti verrà causato lo stesso danno.

È cominciata così la mia giornata, appena l’ufficio è andato animandosi con qualche passo e un finto brillante vociare.

Ovviamente, non avevo il karma alla porta, solo che M. stava provando a rivendicare i suoi spazi con una boutade inutile quanto insulsa. Dovrebbe conoscermi abbastanza bene da sapere che non mi faccio certo prendere dai sensi di colpa.

Quando prendo una decisione, di solito frutto di una condivisione in plenaria, guardo al bene dell’azienda e non mi preoccupo che il singolo soffra o resti male. Specie quando il singolo in questione è un arrivista, competente il minimo, e pure un poco scansafatiche. Ora rivendicherebbe la mancata promozione, con annesso aumento, attribuendone a me e non a sé stesso la responsabilità. Solo che non ha nemmeno il coraggio di affrontare seriamente il discorso, con delle argomentazioni magari, ma cerchi di fare il simpatico con questa filosofia spicciola che pure Facebook se ne mortificherebbe.

Ok, ammetto che potrei non capire il danno procuratoti, ma se il problema è come penso, tranquillo: ti regalo dei biglietti da visita e la firma della mail con il job title che non avrai mai, ma in modo che tu possa comunque sfoggiarlo in giro.

Un Dott. Ing. Dir. Mega Presidente non si nega a nessuno, ma sempre un signor nessuno resterai. Anzi senza nemmeno essere un signore.

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Whitaker

Ero un ragazzino stronzo, d’accordo. E lo sono pure rimasto, stronzo, non ragazzino. Questo perché – a mia parziale discolpa – non ho mai sopportato quelli che usano l’autorità senza l’autorevolezza. Può darsi che a quell’età non lo sapessi mettere in fila lucido il pensiero, ma le azioni che ne seguivano erano più o meno simili a quando ne ho poi avuto coscienza. Ho, per giunta, sempre avuto il maledetto – o benedetto – vizio di non farmi intimidire da complessi di inferiorità, fisica, di ruolo, di classe, di status. È per questo che un bullo – un bullone per quanto era grosso – tentò di strangolarmi nei bagni della scuola, in seconda elementare o me ne sia uscito da una società sbattendo la porta, stringendo un pugno di mosche, di quelle appena volate dalla loro materia preferita. Comunque, tornando a prima della lunga divagazione, sì alla dichiarazione di stronzaggine: ero al catechismo per la comunione, insieme a un piccolo gruppo di colleghi, costretti dai genitori e non dalla vocazione, tutti in attesa del catechista che non arrivava. Arrivò, invece, un supplente, come quelli improvvisati a scuola. Esordì proponendo a noi di scegliere cosa fare, fra due opzioni: giocare a calcio nel cortile delle suore o fare le prove per la Via Crucis. Una figata. Vinse il calcio quindici a uno. Una strafigata.

Ma lui non fu dello stesso parere, invece, e disse che non sarebbe stato giusto, per noi, il catechista in carica, egli stesso, Dio (sul serio?).

Avremmo fatto le prove.

Battibeccammo un po’ io e lui, finché non mi alzai e me ne andai, convinto che mi avrebbero seguito solidali gli altri. Sentii, invece, in lontananza l’intro di Pilato e subito quindici voci in coro “Crocifiggilo”, quelle dei traditori.

Il problema non era recitare, mi piaceva pure. L’avrei fatto se non mi fosse stata data l’opzione o se avesse passato il referendum. Avrei rispettato il volere popolare o del responsabile. Ma così non ci stavo.

Presagivo ammonimenti, convocazioni, bocciature, ma non ce ne furono.

Non è mai sbagliato esprimere preferenze, è sbagliato non rispettare quelle degli altri.

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Whitaker

Un po’ di anni fa ho conosciuto un manager, simpatico, gentile, corretto, garbato, competente. Una bella persona, insomma. Abbiamo ideato, concluso e siamo stati spalla, a vicenda, in diverse operazioni di successo. Eravamo stati presentati da un amico comune.

Avevamo opinioni diverse, si vedeva, a volta addirittura contrapposte, ma il rispetto per l’altro ci faceva convergere, comunque, su posizioni di dialogo, confronto, senza mai perdere l’educazione e la stima. E poi, c’erano le idee: quelle spesso confluivano nel medesimo incubatore, e ci legavano.

Mi piaceva talmente la sua compagnia che, una volta terminate le nostre frequentazioni professionali, ho voluto portarlo nella mia vita privata.

Ho incontrato un’altra persona. Rozza, attaccabrighe, volgare e senza quell’ironia e autoironia, che l’avevano contraddistinta e tipiche delle persone intelligenti e brillanti. Pronunciava parole intrise di insulti e supponenza, colme dello stesso odio che tanto odiava nei suoi avversari, non più persone ormai, in una lunga e triste battaglia col mondo.

Era il nodo della cravatta, quindi, a tenerne legata la vera, insulsa personalità, ne ho dovuto dedurre. Dismessa quella e infilatosi in una polo diventava un altro. O solo sé stesso.

L’ho allontanato dal mio presente, ma non dai miei ricordi. Ne conservo geloso i consigli, gli sproni, le storie. Una volta mi disse del suo amico divenuto Presidente, a cui cominciò, da quel giorno, a dargli del lei. L’amicizia resta, ma era per il rispetto della carica, mi spiegò. Non colsi appieno, allora, lo capisco oggi, invece.

Le risate uscivano rumorose dall’ufficio, dove entrava sempre un raggio di sole, quando ci incontravamo. È per questo che voglio ricordarlo, altrimenti il tempo passato insieme, sarebbe stato solo tempo perso.

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Whitaker

Un sì, al posto di un no e la mia carriera, la mia vita, sarebbero potute cambiare radicalmente. Avrei percorso strade diverse da quelle poi imboccate e a volte addirittura tracciate. Durante una corsa in auto.

Un amico mi chiese di accompagnarlo, una domenica mattina. Per una commissione rapida, aggiunse. Poi avremmo pranzato con un’isola davanti e il mare in mezzo, aggiunse ancora. Ovviamente accettai, non so se per le aspettative paesaggistiche e gastronomiche o solo per fargli compagnia. Sapevo che avremmo corso, non immaginavo che avremmo consumato gli ottocento chilometri, tra andata e ritorno, quasi sempre oltre i centoottanta all’ora e punte di duecentotrenta.

Mi piacque molto quel viaggio, sentivo tutti i cavalli del motore – scalpitanti e rabbiosi – percorrermi la schiena, il sedile sportivo in pelle mi teneva saldo, stretto, come l’infermiere tiene un matto da dietro. L’andata passò senza segni, una corsa folle in cui preferimmo gustarci l’adrenalina scatenata dalla velocità, anche stando solo di fianco, usando parole con poco significato dentro. Parlammo, sì, ma di serate fuori e incroci con le persone, donne e macchine, manco fossero intercambiabili. Al ritorno pilotò abile e sicuro, oltre che la coupé, nera e lucente, anche il discorso, che durò quanto la strada, imperniato un su una proposta di impresa. Un po’ per la sorpresa, un po’ perché avevo imbastito altri progetti, di più, forse, perché proporre e dire mi piaceva più di quanto mi venisse proposto e detto, rifiutai senza riflettere e senza ripensamenti, con la stessa velocità alla quale viaggiavamo. Ci vedemmo poche altre volte e, quando ci incontriamo, ci salutiamo solo da lontano.

È diventato un pezzo grosso, ricco, accerchiato da accoliti sognanti, non so se per leadership o interesse.

Ultimamente, per qualche giorno ho pensato a come sarebbe andato il mio sliding door.

“Va bene così, mi sono ripetuto, fino a convincermi”.

Però mancano quelle corse in auto e quelle chiacchiere intrise di leggerezza.

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Whitaker

Inutile girarci intorno: Pietro non è mai stato una colonna dell’azienda né un manager competente. Lo abbiamo tenuto e mantenuto, solo per far contento zio Milvio, e finché ci costava solo in stipendi, benefit e rimborsi bizzarri e generosi, passi. Ma ormai non si trattava più – solo – di pagare caffè e pasticcini a inutili passacarte e perfetti sconosciuti, faceva danni anche solo aprendo bocca. Può anche darsi che in passato qualcosa di buono l’abbia fatta, ma non se n’è trovata traccia.

Decidiamo, quindi, di collocarlo in ferie, dovrebbe starci molti mesi, per azzerare tutte quelle mai prese: spudoratamente in vacanza da anni!

Risparmiamo i caffè e i danni collaterali, ci consoliamo, dopo aver fatto digerire la cosa anche a zio Milvio, messo di fronte a inequivocabili evidenze. E iniziamo così ad allontanarlo dall’azienda definitivamente, pensiamo.

Comincio quasi a considerarlo un simpatico e nostalgico ricordo, da riderne alle cene goliardiche, quando lo incontro al tavolino del bar, di fianco al mio sarto. È lampante l’imbarazzo, sottolineato dalle guance, dello stesso rosso della cravatta. Per il resto, ha il suo abito blu migliore e l’inseparabile agenda, che ho sempre immaginato con i fogli intonsi. Quel nome dorato, in rilievo sul cuoio, l’ho sempre trovato di cattivo gusto e fuori moda, ma non gliel’ho mai detto.

Mi confida, a questo punto, di non aver comunicato le ferie in famiglia e così esce di casa ogni mattina regolarmente, come fatto negli ultimi trent’anni, manco dovesse salvarci dal fallimento. «Sai – continua – loro mi attribuiscono un ruolo decisamente superiore.»

“Chissà chi glielo abbia fatto percepire” penso, ma taccio, saggio sì, ma spossato da questa situazione incancrenita.

Tempo qualche giorno e scopriamo di come abbia portato avanti alcuni affari durante le ferie, per attaccamento all’azienda, ha sbottato lui, ma costruendo parallelamente altri problemi e sempre più grossi.

E niente, alcuni sono proprio infestanti e deleteri come la gramigna, ma si danno le arie dell’aloe vera.

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Whitaker

Sulle cose lascio correre, è il mio modo di fingermi asceta. Di solito. Poi se mi impunto, beh, è diverso: ci provo proprio gusto a fare il cagacazzi.

A cinque giorni da una disavventura dal meccanico, ci sono dovuto tornare per il tagliando. La volta prima, quella della disavventura, non gli ho cantato le classiche quattro, ho fatto proprio un miniconcerto live. E, uscendo, ho fatto pure gli occhi torvi, come nella migliore tradizione dei rocchettari maledetti.

Non sapevo che aspettarmi, quindi, ma sapevo che si sarebbero ricordati. Comunque, lascio la macchina e salgo sul taxi per andare in ufficio.

Quando torno a riprendermela, all’accettazione, corrono furtivi gli occhietti di Giada, riparando in quelli di Augusto, l’addetto alla riconsegna. Non riesco nemmeno a salutare e non capisco. In verità, mi agita un po’ la cosa, ma dissimulo, da stronzo consumato.

Qualche secondo e sento la basculante alzarsi, mi affaccio e vedo il muso cattivo e stupendo della mia macchina. Cesare, il titolare, scende molleggiando tanto è contento, come un bambino che ha vinto ai videogiochi, e non riesce a frenare le parole:

«Dotto’, l’ho provata personalmente e per farmi perdonare, l’ho fatta pure lavare!»

Effettivamente, pare illuminata, brilla che nemmeno nuova era così. Lo ringrazio pure io molleggiando e ridendo, sodale, manco me la stesse regalando l’auto.

E nel finale mi dà il pass vip che agguanto al volo: «La prossima volta si rivolga a me, Augusto è meno affidabile.»

Non gli dico che non avrebbe dovuto, che era tutto a posto, le solite smancerie, insomma. Non c’è niente da fare, il muso duro, le parole grosse, la faccia tosta – mia e sua – a volte pagano.

Però l’ho perdonato e apprezzato. Ha recuperato un torto senza ipocrisia e senza servilismo, con l’arte del saper vivere.

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Whitaker

Zio Milvio è venuto a trovarmi in ufficio. Un’improvvisata. Ne fa, ma non spesso e io, anziché fare gli onori di casa, ho cominciato a lamentarmi di lavorare tanto, troppo, non avere tempo libero a sufficienza. E, intanto, ne stavo rubando un altro po’ a entrambi, invece di godermi il momento. Si alza, apre il mobile dove tengo le bottiglie e, con calma, si versa una generosa porzione di Lagavulin 16 anni, quello che sa un po’ di fumo, come dice lui. Poi, tra lo spazientito e il divertito, mi fa: “Diciamoci la verità: questa è come te la racconti. In realtà non sapresti starci nemmeno un mese, lontano dall’azienda.”

E comincia a ricordarmi di quanto mi gratifichi, diverta, appaghi, renda felice. Di come il lavoro sia ovunque nella mia vita, in ufficio e non.

Certo, capita la giornata no, in cui manderei – dice lui – affanculo il mondo, innocenti inclusi, ma questa è un’altra storia.

Lavorare, e fare questo nello specifico, pompa adrenalina, tiene vigile e svegli. Non è, probabilmente, nemmeno il legame emotivo con i collaboratori, l’azienda, i soci. Ci si può farne a meno, delle persone e delle cose, almeno così ci si convince.

È l’essere un ingranaggio di una delicata catena di montaggio a farmi stare bene, mi spiega. Sapere che senza di me, il sistema si fermi, si inceppi o anche solo rallenti: È magia e incantesimo.

Mi regala un potere, ma soprattutto una gioia, che lo stipendio e gli utili e i benefit non riescono a comprare. E poi c’è la fortuna di incontrare un sacco di gente. Individui capaci, illuminati, caparbi, ma anche incompetenti, quando non dei completi idioti. Brava gente e delinquenti. Truffatori e onesti padri di famiglia. Persone con una dignità solida da sorreggere palazzi e altri con la spina dorsale di formaggio spalmabile. Scaduto.

Da tutti si impara.

“E tu, zio Milvio non smettere di insegnarmi” – ma non l’ho detto, l’ho solo pensato. Non le diciamo mai abbastanza certe cose, però in qualche modo, trovano la strada per arrivare.

#WhitakerAcademy